Un solco non è di per sé una barriera, un muro, un filo spinato, una linea di guardie schierate. Esso è anzitutto un segno sulla terra che può essere utilizzato per cose diverse. Il solco de-limita, stabilisce con-fini. È simultaneamente inizio e fine. Inoltre, esso è tracciato per seminare e perciò svolge anche una funzione «produttiva», alla quale si richiama il recente libro di Sandro Mezzadra, Terra e confini. Metamorfosi di un solco (manifestolibri, pp. 63, euro 8,00). Da tempi remoti la politica può interpretare il solco come una separazione dalla quale considerare sacro e da proteggere ciò che è all’interno e profano, forestiero, nemico ciò che è all’esterno. Ma a ben vedere il profano non è il contrario del sacro.
L’opposto di quest’ultimo deriva dal sacro stesso, come mostra il rapporto ambiguamente costruttivo/distruttivo tra sacralizzare e sacrificare. I termini che convocano la sacralità dei confini sono tutti dentro la tradizione teologico-politica: la violenza fondatrice, la sovranità, l’impero. Profanare anziché consacrare un limite è ciò che sembra avvicinare meglio quello che Mezzadra, sulla scorta di Sassen, Balibar, Vila, Anzaldùa caratterizza come l’abitare i confini stessi: il non essere né dentro né fuori perché si è simultaneamente dentro e fuori. Come ad esempio sul nostro confine nord i frontalieri che fanno esperienza quotidiana della dimensione profanatoria del confine; benché questa possibilità gli sia stata recentemente ridotta dopo l’esito di un referendum che assegna la priorità al lavoro a chi risiede dentro il territorio svizzero.
Nella logica del sacro, che implica quella del sacrificio, la «creatività» e «produttività» dei confini che creerebbero «nuovi territori» sconta sempre anche il suo opposto. E cioè lo smembramento, la distruzione dei territori che prima avevano un’altra configurazione. Si pensi all’uso dei «confini lineari» per costituire stati-nazione nel continente africano: uno dei lasciti più devastanti del colonialismo.

I confini possono moltiplicare nella stessa misura in cui possono dividere, indebolire reciprocamente gli stati, come si vede da ciò che accade oggi all’Europa.
Una visione che non tiene conto anche di questo aspetto divisivo e riduttivo dei confini è quella dell’«internazionalismo» geopolitico che Carl Schmitt oppone all’universalismo dei diritti (si veda in tal senso anche il recentemente tradotto Stato, grande spazio, nomos, Adelphi). La reciprocità «internazionale» fra stati sovrani e separati da confini non basta a Schmitt per definire un potere sovrano che sia davvero assoluto. Schmitt deve percorrere il territorio fino a quello che è il confine naturale della terra: il mare.

È dal confronto con la dimensione marina sulla cui superficie non si può tracciare un solco (ma si possono istituire confini significativamente chiamati «acque territoriali») che Schmitt trova quell’«assoluta sovranità» di cui parla Carlo Galli a proposito di Hobbes. Ben prima di Schmitt, già quest’ultimo era andato per mare in vista di fondare su più solide basi la sovranità territoriale dello stato: il Leviatano è infatti un mostro marino.
Il solco e il muro richiamati da Mezzadra all’inizio del suo libro a proposito della fondazione di Roma non evocano principalmente un confronto fra interno e esterno, ma  uno scontro fratricida che sta dentro una medesima dimensione politica. Quello tra Romolo e Remo non è tanto uno scontro con l’inimicus o l’hostis, quanto una guerra civile. Quella che i greci chiamavano stasis.

La storia o meglio la genealogia della stato sovrano, prima ancora che dai confini che separano internazionalmente le nazioni, è caratterizzata dal solco instabile e continuamente rimosso della stasis che attraversa già all’interno lo stato stesso (si veda Agamben, Stasis, Bollati Boringhieri). È anzitutto a questo conflitto intestino e a questa costruzione distruttiva della stasis che Marx pone attenzione quando parla di «lotta di classe» (su questo è tornato di recente a riflettere Curi, I figli di Ares, Castelvecchi). Se si tiene conto anche di questo rapporto fra guerra civile e lotta sociale fra oppressi e oppressori, diventa improbabile accordare Marx alla teologia politica di Schmitt.

Adottare le tesi internazionaliste di Schmitt significa rinverdire il paradigma sovranista della reciprocità dei confini – oggi nuovamente e ideologicamente rivestiti di religione, civiltà e identitarismi –, precludersi la comprensione dell’odierna globalizzazione del «solco» lacerante della stasis e l’ambivalente rapporto di questa con il parente (anche linguistico) dello stato – quest’ultimo sempre più ridotto a mera governance che invece di tentare di risolvere i problemi derivanti dai conflitti li mantiene a galla o li lascia affondare in mare.