Se il suo riconosciuto capolavoro Il nome della rosa ha tenuto incollati al libro milioni di lettori in tutto il mondo, non è stato sempre così per i successivi sei, difficili romanzi di Umberto Eco, l’ultimo dei quali, Numero Zero, uscito a pochi mesi dalla morte dell’autore. Neanche la critica ha aiutato queste opere a circolare, e le ha accolte con una sostanziale diffidenza di fondo, sottolineandone il carattere dotto ma impopolare. Eppure, come ci spiega il contemporaneista barese Daniele Maria Pegorari, nel suo Umberto Eco e l’onesta finzione (Stilo editrice, pp. 141, euro 16), il rovello di questa produzione narrativa, seminascosto fra le pieghe di una scrittura di genere, resta coerente: il conflitto fra l’etica autoritaria della verità e la resistenza della realtà, soccombente nella società della comunicazione.

Il saggio, articolato in sei capitoli, mostra come la struttura dei romanzi di Umberto Eco sia giocata sempre sul registro di una paradossale contrapposizione/ sovrapposizione fra una realtà multiforme e in movimento e una verità che tenta di sopraffarla, vanificarla, sostituirla, anche a costo di una mistificazione radicale e della costruzione di un paradigma totalmente inventato.

IL PADRE ITALIANO della semiotica, insomma, aveva visto lontano quando dopo il pencolare fra le ragioni dell’autore e quelle del lettore, nella sua avventurosa ricerca fra gli anni 60 e 70, aveva trovato quella che si sarebbe detta «post-realtà»: la capacità dell’epistemologia contemporanea di generare piani paralleli di interpretazione, tutti autoreferenziali, e di costruire una narrazione altra non più soggetta alla tradizionale antinomia vero/falso, ma libera da tale rapporto oppositivo e da tutte le sue conseguenze.

Il clima culturale del postmoderno fa attrito e fa da sfondo ai personaggi a cui Eco affida la sua battaglia antidogmatica e antimistificatoria. È la strenua ricerca dell’accertabilità di «qualcosa», della narrabilità del reale, della stabilità della pagina a muovere l’invenzione di quelle macchine della frode delle quali Simone Simonini (Il cimitero di Praga) è la più perversa e perfetta. Lo sforzo di Eco si spinge contro la mistificazione storica, politica, economica e religiosa: uno spazio immenso dove la letteratura e l’intellettuale non devono mai stancarsi di compiere la propria missione, sebbene non siano immuni dal rischio di restare invischiati in narrazioni indiziarie e circuìti da una ipertrofia di segni priva della chiave corretta.

È PER QUESTO che Pegorari propone di leggere l’intero itinerario di Eco scrittore come «una sorta di storia sociale del conflitto fra linguaggio e realtà», in cui ritrovare, in filigrana, la condizione odierna del comunicare: non è un caso che Eco abbia sempre guardato con preoccupazione, e con formidabile capacità anticipatrice, alla virtualizzazione della realtà, foriera di un modello rizomatico e non organizzato del sapere. Ne paghiamo le conseguenze oggi, in un momento di caduta clamorosa del credito dei saperi esperti, sostituiti da pseudo verità, da pseudo conoscenze, ottimamente funzionali alla manipolazione che il modello di vita e di produzione neo liberista richiede per prosperare.

È il «paradigma del fazzoletto di Desdemona» a tenere banco, avverte Pegorari: l’indizio giusto, estrapolato dal suo contesto, e collocato in una diversa posizione, può dar vita al corto circuito della mistificazione e, come Otello sa bene, portare a conseguenze letali. Umberto Eco e l’onesta finzione è un libro per chi ha letto i suoi romanzi, per chi vuole approfondire la conoscenza del semiologo, e perfino per chi non ha letto nulla: offre finestre, spunti, chiavi per non fermarsi a Guglielmo da Baskerville, ma per arrivare a Jacopo Belbo e a Baudolino senza la timidezza che li ha trattenuti finora.