Non so quanto sia stato possibile capire, dai primi commenti, l’importanza e la novità di quanto successo ieri al Teatro Valle occupato, con la prima riunione della commissione redigente della Costituente dei beni comuni. La difficoltà di comprendere non deriva soltanto dalla solita, dolosa, congiura del silenzio della maggior parte dei giornali borghesi (fa eccezione da qualche tempo La Stampa grazie all’ impegno di Giuseppe Salvaggiulo).

Giornali la cui inutilità è già stata sperimentata nei referendum del 2011 e che dimostra soltanto che la nostra azione davvero fa male al potere. In effetti, è difficile cogliere la novità di quanto sta avvenendo al Valle in gran parte proprio per il vero mutamento di paradigma politico che la Costituente propone, sicché leggerne il senso con le vecchie contrapposizioni tipo destra-sinistra o individuo-comunità risulta impossibile.
La sola chiave di lettura feconda è quella che discende dalla stessa denominazione, che indica la metamorfosi di quella che fu la Commissione Rodotà, ossia la contrapposizione fra costituente e costituito e quella, altrettanto netta, fra partecipazione collettiva e rappresentanza.
Non ci sono scorciatoie né sconti possibili: i giuristi raccolti ieri nel più bel teatro di Roma ricevono il loro mandato da un’assemblea itinerante e permanente che scaturisce, in modo aperto e fuori da ogni meccanismo di delega, dalle lotte sociali per i beni comuni. Quello di giovedì, orgogliosamente avvenuto in un teatro illegalmente occupato, è un atto di resistenza civile e di sovversione dell’ordine costituito.
Non è un tentativo di ricostruire una sinistra che intende articolare la propria azione nel campo della rappresentanza parlamentare, come mi pare sia l’incontro promosso da Sel oggi a Roma sotto l’insegna della «cosa giusta». Né tantomeno la Costituente dei beni comuni può limitarsi a una dimensione propositiva, volta a piatire l’intervento di un Parlamento illegittimo. Questo terreno è insufficiente, fosse pure articolato in proposte di riforma costituzionale che evitino il presidenzialismo, quand’anche venissero dal meglio dei nostri costituzionalisti accademici, come sembra riproporre Gaetano Azzariti, ancora sul manifesto di ieri.

I giuristi convenuti al Valle sono la voce dell’ insorgenza delle comunità in lotta. È alle comunità in lotta, direttamente e al di fuori della legittimazione costituita, cui dobbiamo guardare se vogliamo fare qualcosa di un po’ meno inutile del solito appello di intellettuali di sinistra destinato a lasciare il tempo che trova.

Quanto successo giovedì al Valle è inseparabile da quanto avvenuto il giovedì precedente all’ Aquila, e da tutte le resistenze dal basso che si stanno articolando nei confronti di un capitalismo sempre più violento e ottuso. È stato un atto di rottura radicale con la legittimazione che, a partire dalla modernità, il giurista riceve dagli apparati dello stato. Il giurista può essere solo il notaio delle pratiche sociali, dei conflitti reali, della critica radicale agli attuali assetti proprietari estrattivi e predatori. In una parola, il giurista torna a essere tale, non un funzionario del potere pubblico che propone riforme figlie della sua stessa logica, dunque rafforzative di un sistema costituito che occorre superare.

Questo fatto spiega perché ieri intorno a quel tavolo, davanti alla meravigliosa scena del Rigoletto e sotto l’insegna «com’è triste la prudenza» non ci fossero «giuristi di sinistra», più o meno organici a tentativi novecenteschi di rifondare la sinistra stessa, quali quelli che avvengono oggi all’ Assemblea del Pd o alla «cosa giusta». Certo, chi sedeva su quel palcoscenico è libero di frequentare chi crede e può perfino essere buona cosa che lo faccia. Ma su quel palcoscenico sedevano giuristi e basta, semplici interpreti di quella forza dei fatti e dei conflitti individuali e collettivi che fonda la giuridicità da tempi ben più antichi della rivoluzione borghese, della pace di Vestfalia e certamente di quella stessa contrapposizione che tanto agitava Bobbio ma che oggi non serve più a nulla se non a perdere le elezioni.

Su quel tavolo si pongono le basi di una pars construens formale quanto mai necessaria per dimostrare, a chi ancora non lo ha capito, che le pratiche di conflitto sociale sono il sale della democrazia e che una democrazia che propone soltanto formule di palazzo ha la stessa credibilità di chi seguita a chiamare operazione di pace un bombardamento.

Soprattutto, il processo autenticamente partecipato e condiviso di elaborazione di un Codice dei beni comuni sarà la dimostrazione inconfutabile che le pratiche collettive non sono per loro natura limitate al governo di piccole realtà semplici, abitate da anime belle ma incapaci di governare i processi complessi. Da questa esperienza scaturiranno le basi giuridiche di un nuovo mondo capace di mettere a sistema l’intelligenza collettiva e di bandire lo sfruttamento dell’uomo e della natura. Questo sforzo, tanto grande quanto necessario e complesso, avrebbe dovuto esser fatto, all’indomani dei referendum del 2011, da tutte le forze politiche che declinano la rappresentanza perché così aveva indicato il popolo sovrano. Al Valle stiamo lavorando per far si che questa latenza ipocrita sia un problema di lor signori e non del popolo che avrebbero dovuto rappresentare.