Se l’Afghanistan piange l’Etiopia non ride. Il conflitto iniziato lo scorso 4 novembre tra il governo centrale e il governo della regione ribelle del Tigray non solo continua, ma si espande verso quella che gli esperti chiamano guerra totale. È la cosiddetta fase 3 del conflitto che da operazione di ripristino della legalità in una zona circoscritta, si è trasformato in insurrezione locale e poi in un conflitto che rischia di coinvolgere l’intero Paese. Nelle ultime settimane, lo scontro si è diffuso nelle vicine regioni di Afar e Amhara, provocando lo sfollamento di altre 250.000 persone. Per i commentatori locali «siamo vicini al flashover (una guerra generalizzata)», con il governo centrale che mobilita gli eserciti degli altri Stati regionali e i ribelli del Tigray che stringono alleanze militari con gli insorti della regione più popolosa dell’Etiopia: l’Oromia.

COME HA DICHIARATO il leader del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF) alla Reuters Debretsion Gebremichael: «Siamo in trattative con l’Esercito di liberazione Oromo (OLA)». Il portavoce del TPLF Getachew Reda ha confermato che «l’accordo era in preparazione, è naturale che lavoriamo insieme a persone che sono interessate al futuro dello stato etiope». Anche il portavoce Oromo Odaa Tarbii ha confermato sostenendo che «a questo punto, condividiamo le informazioni e coordiniamo la strategia ma siamo ancora in una fase embrionale». Il movimento Oromo avrebbe ucciso solo la scorsa settimana, secondo la Commissione Etiope per i Diritti Umani, 150 persone nel distretto di Gida Kiremu (OLA dichiara che si tratta di una conseguenza dovuta all’invasione di milizie Amhara e nega di aver ucciso civili). Sia OLA che TLPF sono stati dichiarati dal parlamento etiope come organizzazioni terroristiche.

Vi è poi un ulteriore attore che incombe ed è l’Eritrea che per mesi ha sostenuto di non essere presente nel conflitto e poi che si sarebbe ritirata lo scorso giugno, ma i cui militari adesso sarebbero ampiamente attivi sul fronte della regione di Afar.
Sia il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che il primo ministro sudanese Abdalla Hamdok, attuale presidente dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD), si sono recentemente offerti come mediatori tra le parti in conflitto.

Sul piano umanitario permangono difficoltà di movimento che, secondo un recente rapporto sulla situazione dell’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari), hanno determinato la consegna parziale degli aiuti necessari. Inoltre, se «l’accesso in vaste aree all’interno del Tigray è fattibile e sicuro», altre aree rimangono inaccessibili (dal 20 agosto nessun camion con rifornimenti umanitari è entrato nel Tigray).

IL SEGRETARIO delle Nazioni Unite António Guterres ha descritto la situazione in Etiopia come «infernale, una catastrofe umanitaria si sta svolgendo davanti ai nostri occhi», sostenendo che circa 400.000 persone sono in condizioni simili alla carestia. Ha inoltre sottolineato che tutte le parti devono riconoscere che «non esiste una soluzione militare» al conflitto e ha chiesto la creazione di condizioni che consentano «un dialogo politico guidato dall’Etiopia. Sono in gioco l’unità dell’Etiopia e la stabilità della regione. La retorica incendiaria e la profilazione etnica stanno lacerando il tessuto sociale del Paese».
Sul piano militare il viaggio di metà agosto del premier etiope Abiy Ahmed in Turchia per colloqui con il presidente Erdogan starebbe dando i suoi primi risultati sul campo con la dotazione all’esercito etiope di droni militari.
Abiy è salito al potere predicando unità e speranza, ha stretto un accordo di pace storico con la nemica Eritrea, ha rilasciato migliaia di prigionieri politici, ha revocato le restrizioni sulla stampa, ma adesso invita gli etiopi alla guerra. «Il sangue bolle» raccontano le nuove reclute, ma non cucina niente di buono.