Incentrato sul voyeurismo alla base di tanta letteratura, il film Nella casa di François Ozon, di recente uscita nelle sale italiane, si conclude col docente Germain Germain e l’allievo e aspirante scrittore Claude Garcia seduti su una panchina davanti a un palazzo e intenti a fantasticare sulle vite inscatolate nel condominio. La pellicola del regista francese rientra a pieno titolo in quel filone cinematografico inaugurato da Hitchcock con La finestra sul cortile e portato avanti da film come L’inquilino del terzo piano di Polanski, Delicatessen di Jeunet e Caro e Carnage dello stesso regista polacco, che tanto deve alla narrativa condominiale.
Che ogni palazzo sia un mondo, una città in scala ridotta, era già chiaro ad alcuni autori dell’Ottocento, che avevano distolto lo sguardo dalle ambientazioni rustiche e dai panorami da grand tour per puntarlo sugli interni delle pensioni e dei primi alveari urbani. In Papà Goriot (1834) i maneggi di Rastignac e altri esemplari di umanità balzacchiana sono impensabili fuori dalla cornice della pensione di madame Vauquer. Ed è probabile che se non avesse abitato in affitto nel claustrofobico sottotetto di un palazzo, le cui scale lo costringevano a incrociare la padrona di casa residente al piano inferiore, il Raskol’nikov di Delitto e castigo (1866) non avrebbe mai ucciso la vecchia usuraia a colpi d’accetta. Allo stesso modo le peripezie lavorative e sentimentali di Octave Mouret avrebbero poca ragion d’essere senza il calderone residenziale di rue de Choiseul, di cui in Pot-Bouille (1882) Zola, tra i primi a sfruttare appieno il potenziale narrativo del palazzo, passa in rassegna appartamenti e inquilini con la puntigliosità di un amministratore condominiale. Man mano che il mondo si affolla e si urbanizza e l’avanzata delle città verticali fa indietreggiare i mari in tempesta di Conrad e le campagne in cui il conte Tolstoj ambientava le sue scene di caccia, anche lo spazio letterario si contrae. Le distese d’erba diventano strati di moquette. Le scene di guerra si convertono in liti sul pianerottolo. E il cannocchiale del nostromo è rimpiazzato dallo spioncino sulla porta dei dirimpettai.

Palazzi affollati

Ma se con Balzac, Dostoevskij e Zola il palazzo è ancora poco più che il nuovo habitat, il microcosmo sociale in cui i personaggi si aggirano in opere dall’impianto ottocentesco, nei decenni successivi la letteratura di palazzo ha uno scatto di reni evolutivo. Appartamenti e mezzanini rompono gli steccati della location realistica e iniziano a interagire più in profondità con trame e figure e col modo di raccontarli. La struttura del condominio si infiltra nelle gabbie narrative. Suggestiona e condiziona la forma romanzo, quando non diventa l’agente catalitico di poetiche moderniste o postmoderne.
Ecco allora Cornell Woolrich adattare le caratteristiche dei nuovi agglomerati urbani allo statuto del genere noir. Il paradigma indiziario inaugurato da Delitto e castigo è alla base del suo La finestra sul cortile (1942), sul quale Alfred Hitchcock si avventerà con l’agilità predatoria di uno dei suoi uccelli per trarne l’ennesimo capolavoro filmico. In It Had to Be Murderer, titolo originale del racconto, i traffici del dirimpettaio spione, figura già presente in Zola e qui elevata a potenza dalla sua attività di fotoreporter, sono replicati nell’indagine sull’improvvisa scomparsa della moglie di una coppia di condòmini.
Lo stesso paradigma – l’inchiesta sul furto di gioielli ai danni della vedova Menegazzi e sull’omicidio della condomina Balducci nel «palazzo degli ori» – è invece in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) poco più che il pretesto, la molla romanzesca con cui Carlo Emilio Gadda dà slancio alla figura di Don Ciccio Ingravallo e a una baraonda narrativa di eventi e comparse. Ricerca investigativa, interazioni tra personaggi e lo stesso palazzo di via Merulana, prefigurato più di vent’anni prima dallo stabile milanese de L’incendio di via Keplero, sono per Gadda i fili indisciplinati dello gnommero, cioè il gomitolo, il caos barocco e inestricabile che secondo i canoni della sua poetica costituisce tanto la realtà quanto la lingua che la riedifica.
Al gomitolo gaddiano George Perec oppone il puzzle. Per lo scrittore francese al caos espressionista è da anteporre il razionalismo delle forme euclidee. Meglio dell’arruffio linguistico è il rigore dell’elenco. Ed è così che in Vita, istruzioni per l’uso (1978) l’impalcatura romanzesca è consegnata alle forme di un inventario di condominio. Le vicende dei protagonisti sono narrate circolarmente a partire dagli interni e arredi del palazzo al civico 11 di Rue Simon-Crubellier, un «biquadrato» di dieci stanze per piano distribuite su dieci piani per un totale di cento camere. L’incastro dei destini individuali ricalca le geometrie dell’architettura condominiale e del puzzle, correlativo oggettivo del condominio e del romanzo stesso, che il protagonista Bartlebooth si ostina a scomporre e ricomporre.
Negli stessi anni e nei successivi la narrativa di palazzo dà alcuni dei suoi frutti migliori impossessandosi del paradosso che fa da piedistallo a ogni moderno caseggiato: la sua contraddittoria e irriducibile combinazione di isolamento e anonimato da una parte e convivenza coatta dall’altra. Con una duttilità narrativa che finora solo l’ufficio burocratico aveva conosciuto, il condominio diventa il campo di ricognizione per scrittori intenti a esplorare le problematiche dell’alienazione contemporanea e dell’incerta esperienza del reale coi loro corollari tematici e stilistici: dalle picchiate negli strapiombi dell’inconscio alla miscela di familiare e ignoto che genera il perturbante, dalle possibilità di montaggio narrativo alla moltiplicazione e parcellizzazione dei punti di vista.
È così che Roland Topor, ne L’inquilino del terzo piano, titolo originale Le locataire chimérique (1964), trasforma gli attriti della vita di palazzo in un surreale dramma psicologico. Alla sostituzione di inquilini, col subentro di Trelskoski nell’appartamento della suicida Choule, corrisponde un ribaltamento sempre più schizofrenico tra il piano della realtà e quello psichico finché il precipitare degli eventi porta il protagonista, e il lettore con lui, a perdere il contatto col mondo reale e a non sapere più chi è chi.

Set visionari

Un’atmosfera simile, greve di ostilità e paranoia, si respira in Condominio (1975) di James G. Ballard. Qui il blackout di un quarto d’ora manda in tilt la recita delle convenienze sociali e fa ripiombare il dottor Laing e tutta la media e alta borghesia che popola il grattacielo nelle tenebre dell’animalità. La visionarietà antropologica di Ballard, che ritroveremo anni dopo nella claustrofobica pièce condominiale Il dio del massacro (2006) di Yasmina Reza, sta lì a dirci che, scrostando con l’unghia la vernice tecnologica e borghese del palazzo moderno, rimaniamo i vecchi, eterni vicini di caverna.
E se in Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (2006) di Amara Lakhous la moltiplicazione delle finestre sul cortile dà l’assist all’esplosione polifonica dei narratori e al melting-pot dei personaggi con l’assunzione del condominio a specchio dell’attuale società multietnica, I malcontenti (2010) di Paolo Nori compie un’operazione di segno opposto. Il gomitolo gaddiano è qui assottigliato fino alla resa in filigrana. La storia di Giovanni e Nina affiora attraverso scorci, frasi orecchiate, reticenze e ipotesi con la frammentaria fugacità di una serie di incontri sul pianerottolo. In Un certo senso (2007) di Francesco Fagioli un guasto alle condutture – l’incidente domestico che, alla stregua del gesto violento, fa saltare il tappo della quiete condominiale è già più che un topos letterario – dà il la a un eccentrico romanzo epistolare. Il formalismo e il gergo avvocatesco della lettera di protesta sono presto sgomitati via dal tono confessionale e da un vocabolario manierista. L’epistola a tema è scassinata dal flusso delle digressioni. E ancora una volta il Super Io del condominio non riesce a fare da coperchio alla pentola in ebollizione dell’Es individuale.

Stravaganti esistenze

Ma chi tra gli altri autori condominiali ha osato di più in termini di eclettismo è senza dubbio il fumettista Chris Ware. Composto da quattordici elementi che variano per formato e dimensioni – dalla riproduzione del condominio in stile «gioco da tavolo» al diario, dal giornale alle vignette miniaturizzate – il multiforme grafic novel Buindilg Stories (2012) incorpora rigore euclideo e caos combinatorio, prospettive multiple, link narrativi. I protagonisti dei tre racconti che s’incrociano in un palazzo di Chicago sono una donna con una gamba amputata, la vecchia padrona di casa smemorata e una coppia di giovani. La varietà compositiva dell’opera, che simula la struttura composita del condominio stesso, consente al lettore di decidere il come e il quando, stabilire le connessioni, scegliere la porta d’ingresso e quella di uscita di una storia.
Che il palazzo della narrativa condominiale abbia raggiunto quella che Ballard chiama la «massa critica», il momento in cui ogni spazio è abitato, la struttura è piena e ogni possibilità tematica e stilistica sia stata occupata? Poco probabile. Per cui non resta che sporgersi dalla finestra sul cortile o incollare un orecchio alla porta della letteratura, nell’attesa che arrivi il prossimo inquilino.