Ci sono almeno due modi per leggere l’ultimo romanzo di Eshkol Nevo. Si può considerare Tre piani, Neri Pozza (pp. 256, euro 17), traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, come un viaggio doloroso nella solitudine e nello smarrimento che coglie l’animo umano di fronte alla paura e all’isolamento, un percorso cupo, difficile e in cui solo verso la fine è dato di cogliere la luce di una speranza. Oppure si può scorgere nelle storie e nei personaggi descritti l’eco di una straordinaria metafora dei quesiti che attraversano la società israeliana degli ultimi anni, sospesa tra una drammatica chiusura su se stessa, la necessità, e la volontà, di un dialogo con «l’altro», in questo caso i palestinesi, e il costante confronto con i propri, talvolta contraddittori, miti di fondazione. Infine, ed è forse la pista più feconda con cui avvicinarsi al libro, si può prendere in considerazione l’apparente paradosso che proprio per la sua natura così intima, si tratti in realtà di un testo intrinsecamente politico.
Quarantasei anni, nipote di un premier laburista degli anni Sessanta, cresciuto tra Gerusalemme, Haifa e Detroit, docente di scrittura creativa all’università di Tel Aviv, Eshkol Nevo è l’autore più importante della generazione di narratori apparsa dopo la triade Grossman, Oz, Yehoshua. Nei suoi romanzi traduce con una lingua limpida, ma con estrema determinazione, sogni e inquietudini degli israeliani di oggi.

In Tre piani, uscito in Israele due anni fa, e che rappresenta probabilmente il suo testo più duro, mette in scena le ossessioni degli abitanti di una tranquilla palazzina borghese di Tel Aviv, dove dietro all’apparenza di benessere e serenità si consumano drammi e prendono forma i peggiori incubi; al punto che sulle prime verrebbe da pensare a Il condominio di Ballard. A ogni piano corrisponde una vicenda e una ferita. Al primo si incontra Arnon, terrorizzato dall’idea che l’anziano vicino che si prende cura di sua figlia possa avere in realtà ben altre intenzioni. Al secondo c’è Hani che combatte con la solitudine cui la costringe il marito Assaf, anaffettivo e sempre in viaggio d’affari. Al terzo vive Dvora, che dialoga con il marito morto attraverso una vecchia segreteria telefonica e si interroga ancora sul perché il loro unico figlio abbia rotto con la famiglia. Proprio da Dvora verrà però un segnale di apertura al mondo che sembra interrogare in un modo nuovo il suo dolore. Questo, mentre il paese è scosso da forti movimenti sociali.

Sulle prime si ha l’impressione che il romanzo proceda con le vicende dei tre piani in parallelo, quasi come un’immersione prolungata in un’atmosfera claustrofobica, poi ci rende conto che i tre livelli sono da intendersi in ordine progressivo e che dall’oscurità ci conducono a intravedere la luce. È così?
L’idea di leggere il mio romanzo nella chiave della luce e del buio, di un passaggio dalla claustrofobia a una condizione aperta e luminosa mi sembra molto interessante. In realtà, non saprei dire se questa dimensione progressiva era insita nel mio lavoro, ma dopo aver raccontato per i primi due piani personaggi per certi versi ossessivi, credo di aver preso inconsciamente la decisione di aprire un po’ l’orizzonte, facendo sì che la vicenda del terzo piano fosse meno segnata da una sorta di autoreclusione, come accaduto per la altre due, e fosse invece protesa verso l’esterno, gli altri e una dimensione pubblica.

Un personaggio del libro afferma «qual è poi il più grande segreto che possiamo nascondere al mondo? Il segreto della nostra vulnerabilità». Arnon e Hani raccontano le loro vicende ad amici lontani, quasi parlassero a se stessi, Dvora sceglie invece di mescolarsi con il mondo e di non rinunciare alla speranza. Sembra una metafora delle incertezze che accompagnano la vita di Israele?
Nei primi due piani si svolgono le confessioni di persone veramente impigliate nella solitudine. Al terzo piano, con Dvora, la situazione cambia totalmente. All’inizio lei parla con il marito morto, ma poi cerca di aprirsi alla vita, di guardare a quanto sta avvenendo intorno a lei. E questo la cambierà anche intimamente. Ciò che predomina nella sua storia è la dimensione sociale, addirittura politica. Del resto, non è forse un caso se ad aprile in uno dei maggiori teatri di Tel Aviv debutterà una pièce teatrale tratta proprio dal capitolo del terzo piano del romanzo. Evidentemente anche altri hanno colto un significato più ampio in tutto ciò.

Dopo aver cercato conforto nella lettura di Freud, Dvora arriva alla conclusione che noi esistiamo grazie al confronto con «l’altro». Così si congeda dai lettori partecipando alla grande manifestazione degli «indignati» di viale Rothschild, quella da un milione di partecipanti, del settembre del 2011. E, in mezzo alla folla esclama: «c’è ancora una speranza!».
Quello dei cosiddetti «indignati» che nel 2011 si sono accampati per mesi sul viale Rothschild di Tel Aviv per chiedere una svolta nelle politiche del paese, sia in materia sociale che nella ricerca di un dialogo con i palestinesi, ha rappresentato per molti versi una sorta di movimento rivoluzionario. Alcuni dei loro leader seguivano i miei corsi all’università e perciò io stesso ho finito per essere coinvolto in prima persona in quelle mobilitazioni. In Dvora, un po’ come è accaduto a me, malgrado si tratti anche per lei di un movimento che coinvolge soprattutto un’altra generazione, i più giovani, tutto ciò accende una nuova speranza, una voglia di guardare al futuro in modo diverso, pensando che le cose possano davvero migliorare.

E questo malgrado la stagione degli indignati di Tel Aviv si sia chiusa e il paese faccia ancora i conti con un governo di estrema destra come quello di Netanyahu?
È vero non abbiamo vinto, visto che la caduta del primo ministro era tra i nostri obbiettivi e invece sta ancora saldamente al suo posto. Però sento di poter dire che quel movimento ha cambiato in profondità la società israeliana, specie i suoi giovani, gettando dei semi di cui i frutti si vedranno in seguito. Soprattutto, ha trasformato il modo di sentire di molti, me compreso, di guardare a questo paese pensando di poterlo cambiare. Credo di aver scritto Tre piani anche animato da questa sensazione, pensando di rivolgermi a chi sta attraversando un momento buio, come è il caso di Israele, ma sa che alla fine, impegnandosi, potrà far cambiare direzione alle cose.