Per i suoi primi trent’anni, Romaeuropa ha deciso di concedersi una lunga Ricreazione: il suono della campanella durerà almeno 75 giorni (dal 23 settembre all’8 dicembre) e a inaugurare quella «pausa» dal grigiore quotidiano ci sarà il viaggio intimo, diviso tra infanzia e adolescenza, di un maestro come il quebecchese Robert Lepage. Al teatro Argentina, con il suo 887 (125’ di spettacolo dal 23 al 26 settembre, il titolo corrisponde al numero civico di Rue Murray dove abitava da piccolo, ndr), il regista e attore che ama i cortocircuiti visivi metterà in scena una sorta di condominio della memoria.

Si va a ritroso, affondando nell’effetto flou del ricordo attraverso una potente macchina teatrale con gli effetti spiazzanti della lanterna magica, «dove la piccola storia, quella personale si mescola a quella grande», spiega il drammaturgo. In alcuni momenti condensati, si racconta lo scontro, avvenuto negli anni Sessanta in Canada, fra la popolazione anglofona e francofona, quest’ultima in cerca di spazi di autonomia politica. «Quel conflitto era una forma di lotta di classe. Il mio spettacolo può considerarsi poetico/politico, il testimone, però, sono io bambino: dato il punto di vista eccentrico, mi sono sentito autorizzato ad affrontare questo tema, senza però sposare una posizione». Nella vita vera, invece, quella posizione Robert Lepage l’ha presa sul serio, appoggiando il desiderio di sovranità del Québec. «Il termine nazionalismo si lega sempre a pensieri negativi, ma si può associare anche a un’idea diversa, come a quella di un paese che s’incammina verso l’evoluzione, spingendosi a immaginare una società futura». Confini e frontiere da difendere in un momento in cui l’umanità sceglie o è costretta alla dislocazione? «Il Canada, in effetti – risponde l’artista – non si sta ancora confrontando con l’urgenza dei migranti che sbarcano in Europa. Da noi il fenomeno assumerebbe comunque connotati diversi, non va dimenticato che si tratta di un territorio molto grande con una bassa densità di popolazione».

Ma questi sono scenari di un possibile «domani», mentre Lepage in 887 guarda al passato, va alla ricerca di sostrati sedimentati dove recuperare affetti, pensieri, storia propria e altrui. D’altronde, scherza con leggerezza, «quando cominci a recitare ti fanno i complimenti solo se ti ricordi tutto. Ora che ho superato i cinquant’anni, il tema della memoria assume contorni preoccupanti…».

887 promette di essere anche una riflessione sull’arte scenica, quell’andare avanti e indietro nel tempo, allontanando e avvicinando oggetti e persone, narrando verità antiche che finiscono per diventare dispositivi dell’«autoinganno». Siamo a teatro, si gioca con la finzione, ma «i personaggi che presento hanno una loro consistenza reale, magari non abitavano nel mio stesso palazzo ma erano dei vicini di casa».

In più, aleggia la figura paterna in quella sua incursione un po’ favolistica e un po’ melanconica, attraversata da un uso espressivo delle nuove tecnologie sorprendente: «Non credevo che mio padre potesse giocare un ruolo principale. Era un uomo di poche parole, una figura quasi assente, ma col processo di creazione è arrivato e ha preso tutto il suo spazio». 887 è una sorta di album interiore da sfogliare insieme, una mappa emozionale che si srotola tra zoom e visioni grandangolari come ci fosse una lente d’ingrandimento a selezionare i particolari. Lepage ha anche qualcosa da dire a proposito del teatro contemporaneo: «Ne vedo poco in giro, qualcosa di ’teatrale’ si può rintracciare oggi nei musicisti o i circensi. Come Peter Gabriel: la nostra collaborazione è stata entusiasmante».

Robert Lepage sarà introdotto al pubblico domani sera da un incontro con la critica Rossella Battisti e il giorno dopo tornerà a confrontarsi con la platea insieme a Giorgio Barberio Corsetti. Il suo a Roma è un ritorno. Al festival era già approdato con due produzioni: nel 1997 con Needles and Opium e nel 2006 con il bellissimo The Andersen Project, che ripercorreva la complessa personalità dello scrittore, dopo la lettura del suo diario, infrangendo molti stereotipi.