Si fa presto a dire «State a casa», ma quale casa? Un conto è vivere in un attico, un altro in un bilocale scalcagnato. La casa è oggi più che mai una delle grandi discriminanti fra chi può e chi non può e chi abita nelle periferie delle grandi città lo sa meglio di altri.

Nella gentrificazione selvaggia che ha trasformato i centri più ambiti in riserve di airbnb dalla rendita sicura, almeno fino a due mesi fa, anno dopo anno i meno abbienti sono stati spostati sempre più lontano dal centro, in periferie sempre più ampie e allargate, dove gli affitti costano meno, dove per la stessa cifra puoi acquistare il doppio di metri quadrati, ma comunque con mutui lunghi di 20 o 30 anni, in condomini asettici e impersonali, senza vita al suolo, o vicino a strade a traffico intenso, o in case popolari mal mantenute.

Nella corsa alla rendita immobiliare il valore di mercato è stato applicato anche alle vite delle persone e ai loro corpi, come se fosse scontato che chi non ha alle spalle una famiglia solvente, chi ha un lavoro precario, chi scappa da povertà e guerre, chi ha stipendi vergognosamente bassi, sebbene faccia lavori che servono alla comunità, debba essere escluso dalle zone considerate più belle o alla moda. Lo sapevamo anche prima, ma ora la faccenda è diventata un’emergenza.

Ora che da settimane si è costretti a restare tappati fra le mura domestiche, certe case stanno diventando prigioni e non esattamente dorate. Immaginate una donna con un marito violento, chiusa in casa tutto il giorno con lui, impedita a uscire anche con i bambini perché il decreto dice che lo si può fare solo uno alla volta. Immaginate che questa donna non possa nemmeno fare una chiamata per chiedere aiuto, perché lui è lì che controlla anche il telefono. E poi immaginate lo stato d’animo dei bambini costretti a vedere e sentire tutto ciò più di prima, le urla, le botte, le vessazioni.

Un’amica che fa la maestra d’infanzia e ogni tanto telefona alle famiglie dei bambini che segue per sapere come stanno, ha detto che una di queste donne l’altro giorno piangeva. Lei, il marito violento e i tre figli piccoli vivono da un mese letteralmente chiusi in due stanze. L’associazione «Giù le mani dai bambini e dalle donne« ha pubblicato un appello che dice: «I bambini e i ragazzi sono stati pensati solo come studenti passivi da tenere impegnati e chiusi in casa».

La Casa delle donne maltrattate di Milano, in difficoltà perché nell’ultimo mese sono calate le donazioni, dice che le nuove richieste di aiuto sono diminuite del 50%, segno di quanto sia difficile liberarsi dal proprio aguzzino anche solo per telefonare. Poi suggeriscono strategie di aggiramento: «Chiamateci quando lui è sotto la doccia, quando dorme, e sappiate che noi siamo ancora qui per aiutarvi (0255015519)». In Spagna, per permettere a chi è in difficoltà di chiedere aiuto in modo pratico e veloce, hanno adottato il codice «mascherina 19». Se una donna entra in farmacia e chiede una «mascherina 19» i medici capiscono subito a che cosa si riferisce.

Trovare soluzioni praticabili, non escludenti né repressive è anche l’idea di molti gruppi femminili e femministi che raccomandano l’uso della mascherina per tutti, bambini compresi. Le ragioni sono due. Una mascherina serve a proteggere gli altri, oltre che se stessi. Se tutti la indossassero si potrebbero allentare le misure di isolamento riappropriandoci di un minimo di vita sociale. «Mi maschero per proteggere te e non solo perché ho paura per me» è un messaggio con una forte carica simbolica che permetterebbe di aprire di più quelle porte troppo chiuse.

mariangela.mianiti@gmail.com