Dramma, tragedia, ma anche fastidiosa noia produce questa prolungata visita del virus.
Persino un filosofo immaginifico come Jean-Luc Nancy – in un intervento sulla Stampa di venerdì scorso – ammette che quasi tutto è già stato detto e continua a dirsi. E se anche lui ripete che l’epidemia può farci riflettere meglio sulle storture di un modo di vivere modellato dal tecno-capitalismo, lo fa con una sorta di rassegnato distacco da se stesso. Difficile pensare di saper costruire un altro futuro. Magari pronunciando di nuovo la parola, pur indispensabile, «comunismo».

In un mondo «privo di spirito» (Marx dixit) è proprio la sincronia tra il respiro – principale bersaglio del virus – e un nuovo linguaggio che ci manca. Dovremmo imparare da capo come fanno i bambini nei primi mesi e anni di vita. «Dobbiamo essere bambini anche noi», conclude Jean-Luc Nancy.

In realtà, contro la noia, volevo semplicemente cambiare argomento e parlare un po’ di musica. Mosso da una esecuzione particolarmente incisiva (András Schiff) del quarto concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven ascoltata alla radio. Per me è il più bello e affascinante, intrigante, dei concerti per piano di Beethoven, e una delle sue migliori composizioni. (Ho dalla mia pareri non dilettanteschi: Giovanni Carli Ballola, per esempio, che nel suo classico libro sul grande compositore parla della «soave beatitudine del più bello dei Concerti beethoveniani»).

Esitavo, non essendo uno specialista, ma la recensione di Carla Moreni – sulla Domenica del Sole 24 ore – dell’interpretazione che del Quarto ha dato la giovane e già famosa pianista Beatrice Rana, il 17 febbraio scorso alla Scala, appena in tempo prima della dittatura del virus sulle nostre vite, mi ha convinto. Un appuntamento «importante, di quelli che non passano inosservati – scrive – l’esecuzione del Quarto, il femminile, tra i cinque concerti. Il più morbido, col sol maggiore dolce e luminoso, cordiale di affetti nel dialogo con l’orchestra (qui sul podio Fabio Luisi) e con la sorpresa icastica dell’attacco iniziale, dove il solista entra con una frase che tutto promette, allusiva e catturante, ma poi invece tace. Esce di scena, sembra prendersi una scherzosa pausa, un riposino, mentre intanto gli strumenti intorno lavorano».

Perché «femminile»?
Non c’è qui quella potente retorica «marziale» che caratterizza tanti altri capolavori di Beethoven. Per esempio il terzo e il quinto (l’Imperatore) concerto per piano tra i quali si colloca il nostro. Che fu eseguito dallo stesso autore in una occasione storica, in cui furono presentate altre musiche composte nello stesso periodo: la Quinta e la Sesta sinfonia, tra l’altro.
Una cronaca dell’epoca (correva il dicembre del 1808) lo definisce così: «Tutto ciò che vi è di più strano, di più originale e di più difficile».

Il tema annunciato dal pianoforte ha una struttura ritmica simile al famoso perentorio ta-ra-ta-tààà della Quinta, ma la tonalità maggiore anziché minore, il tempo più lento e la diversa disposizione melodica e armonica apre un paesaggio sonoro di segno opposto.

Beethoven nei primi tre concerti – dicono i musicologi – era restato nei limiti formali del linguaggio di Mozart, forzandolo e dilatandolo. Ma è solo con il quarto che inventa un linguaggio completamente nuovo (paradossalmente qui più intimamente e profondamene legato allo «spirito» mozartiano). Forse la magia di questa musica avviene proprio perché ascoltiamo stupiti la nascita di una nuova lingua, musicale e spirituale. L’unico modo di risentirsi per un momento bambini?
Riascoltiamolo comunque, per distrarci un po’, e per brindare ai 250 anni di Ludwig van.