«Gato Barbieri è stato un pioniere, un faro della mia carriera, capace di innestare la musica popolare del suo paese, l’Argentina, col jazz dando vita poi a tutta la stagione della world music. Personalmente, aver ascoltato per tanto tempo i suoi dischi, Fenix, The third world, Chapter one, Bolivia, El pampero, mi ha aiutato spesso. Finito il conservatorio mi barcamenavo tra new wave napoletana, qualche gruppetto jazz, un po’ di musica classica, ma soldi non ne giravano. Quando mi arrivò una telefonata di un arrangiatore dalla Zeus, storica sala di registrazione napoletana, il posto dove si incontravano tutti i cantanti e musicisti napoletani del giro matrimoniale, capii che era arrivata un’occasione da non perdere. Dovevo fare bella figura. Suono, intonazione e ovviamente tutte le belle cose che avevo imparato sui dischi. Andai a fare questo turno di registrazione pieno di idee eroiche. Presentazioni, conosci questo conosci quello, hai studiato con tizio hai suonato con Caio, ok vai di là e metti la cuffia. Partì il nastro. Niente swing, nessun accordo con una settima, una nona, una cosa dove avessi potuto appoggiare una nota blues o infilarci uno di quei fantastici fraseggi che avevo imparato a memoria. Niente. La minore e mi maggiore, un re minore di passaggio là dove non te lo saresti mai aspettato. Tutti accordi perfetti. Non misi una nota buona. Dopo dieci minuti ero nel pallone e ormai non riuscivo nemmeno a tenere il tempo. Una figuraccia, mentre vedevo gli sghignazzi dietro al vetro del tecnico e dell’arrangiatore. Tornai a casa piangente e bastonato. Per settimane ripensavo a cosa era successo, cercavo una strada onorevole di fare un assolo in quella musica così elementare armonicamente. E dopo un poco mi venne in mente lui, El Gato. Melodia, suono, anzi suono graffiato come si dice, quello che esce da un sax quando oltre che soffiarci ci canti anche dentro allo strumento. Non so perché mi diedero un’altra occasione e questa volta lasciai il segno. Da allora mi si aprirono le porte degli studi napoletani. Tutti li ho segnati. Nino D’Angelo, Carmelo Zappulla, Roberto Murolo, Eduardo De Crescenzo, Mia Martini, Gigi Finizio, Franco Califano, Peppino Gagliardi… e poi i fantastici arrangiatori dell’epoca».

PAROLE autentiche di Daniele Sepe, il pifferaio di Portalba, il comunista del jazz, vicino alle 60 primavere e ai 30 dischi «in proprio» (molti per l’etichetta manifesto cd), per rivelare il senso di questo impetuoso omaggio a Leandro Barbieri, figlio di un falegname piemontese, nato a Rosario (la città di Guevara e di Messi) nel 1932 e scomparso nel 2016, il brillante musicista della colonna sonora di Ultimo Tango a Parigi e di tante scorribande free jazz tra New York e Roma, Londra e Buenos Aires (perciò il soprannome El Gato, un felino randagio, saltellando a suonare da un club all’altro, nella stessa notte). The cat with the hat è il titolo del nuovo disco (su piattaforme digitali, distribuzione fisica Good Fellas, crowfunding con produzioni dal basso) con riferimento all’immancabile cappello, il Fedora dalla tesa larga che Gato indossava ovunque, dieci brani tratti dal canzoniere sociale internazionale compreso Nunca Mas e Song for Che; «Nello scegliere cosa suonare non ho avuto dubbi. Inutile ripercorrere brani suoi, giusto un paio, dopo tutto se uno vuole sentirli sente le sue versioni. Ma ho voluto scegliere una serie di brani, molti tradizionali, che ho sempre cercato di immaginare come li avesse suonati lui». Stavolta Sepe ha abbandonato l’indisciplinata ciurma vesuviana di capitan Capitone e ha radunato Roberto Gatto e Stefano Bollani, un tempo sodali di El Gato oggi suoi compagni di tournèe, e tanti musicisti latino americani come Robertinho Bastos e Arlen Azevedo alle percussioni, Roman Gomez al pianoforte e altri, dando ampio risalto al batterista statunitense Hamid Drake.

IN ALCUNI BRANI, La partida e Montilla, il guastatore sonoro al sassofono è davvero torrenziale, con acuti ripetuti e fiammeggianti, fraseggio libero in puro stile ribelle anni ’70, un imprinting anarco-dadaista che ha radici lontane. «Nel 1975, erano i tempi di Tammurriata dell’Alfasud, giravo per tutta l’Europa col gruppo dei Zezi, io mi stavo diplomando in flauto al conservatorio e mi trovavo nella stessa sera sul palco con Perigeo o Area e mi sentivo anchilosato, volevo qualcosa di più potente del flauto e scoprii il sassofono. Cominciai a fare il turnista coi grandi arrangiatori e maestri della Rai. Mi ricordai di Gato già nel mio terzo album, mettendoci dentro la sua Yo no le canto alla luna, che poi scoprii essere una canzone di Atahualpa Yupanqui. Gato indagava nel repertorio popolare sudamericano, considerava standard da suonare i brani che lo avevano accompagnato nell’infanzia, Le Pera, Piazzolla, Yupanqui». E proprio dai due fratelli napo-argentini, Homero e Virgilio Exposito, arriva il conclusivo Naranjo en flor, un tango classico d’incantata dolcezza.