L’intenzione di Autostrade per l’Italia di investire parte delle gigantesche plusvalenze incassate in questi anni in opere di manutenzione, di assumere personale qualificato e di realizzare un sistema di monitoraggio in grado di garantire l’incolumità dei cittadini, è la dimostrazione concreta di due più generali questioni.

La prima riguarda il fallimento della cultura delle privatizzazioni che ha recato un danno alla funzione pubblica regalando una ricchezza immensa ai gruppi imprenditoriali che si sono impadroniti dei gioielli di famiglia. La seconda questione riguarda il fatto che i pubblici poteri, quando vogliono, possono ancora condizionare il privato e imporre una svolta nei rapporti di forza. Nei trenta anni dell’ubriacatura neoliberista, le già deboli strutture pubbliche sono state messe nella condizione di non intervenire, solo il laissez-faire era la ricetta vincente. Ora che hanno certificato gravissime inadempienze e ritardi dei concessionari rispetto ai contratti sottoscritti, i privati sono costretti a mettersi in regola.

C’è voluta l’immane tragedia del Polcevera per far aprire uno spiraglio sul futuro. Ma se nel caso di Autostrade siamo di fronte ad una buona notizia, altri segnali preoccupanti ci dicono che tutto può restare come prima. A Roma, ad esempio, la sindaca Raggi ha avviato le procedure per far costruire un immenso nuovo quartiere alle Ferrovie dello Stato omettendo di esigere dalla stessa società i benefici pubblici sottoscritti negli anni passati. Con una recente deliberazione di Giunta comunale di Roma si concede di aumentare le volumetrie in una zona molto centrale e qualificata, lo scalo Tuscolano.

Con quella deliberazione si cambiano i protocolli di intesa già sottoscritti tra Regione Lazio e comune di Roma in cui era previsto che Ferrovie valorizzassero le proprietà del nodo- Tiburtino (è stata costruita la sede centrale della Banca Nazionale del Lavoro) e di altre aree ferroviarie, in cambio l’azienda si era impegnata a cedere servizi mancanti, come le aree a verde pubblico.

Nel 2016, durante il mio incarico di assessore all’urbanistica, Ferrovie dello Stato manifestò l’esigenza di aggiornare i vecchi protocolli d’intesa.

Mi dichiarai subito favorevole, perché le città devono essere in grado di seguire le dinamiche che via via maturano, ma chiesi che prima di passare ad una nuova fase si ottemperasse alla cessione dei parchi pubblici previsti da tempo. In particolare, la cessione di 80 ettari (un’estensione pari alla villa Borghese) nella zona della stazione Tiburtina, un’area che poteva essere fruita anche da quartieri colpiti dalla speculazione edilizia, come piazza Bologna. La seconda area era molto più estesa, 200 ettari a via della Primavera, un’area periferica della zona Casilina, totalmente priva di servizi e di verde. I due parchi ancora non esistono mentre le cubature di Ferrovie sono state ultimate da tempo. Ricchezza privata e pubblica povertà, un classico.

Non si comprende dunque come venga favorita un’altra cementificazione della città senza richiedere preliminarmente i servizi indispensabili per raggiungere il bene-essere dei cittadini.

Intendiamoci, l’area Tuscolana è una piccola enclave di degrado, tra capannoni fatiscenti e abbandono, e ben vengano dunque investimenti per migliorare lo stato delle cose. Ma a una condizione. Nell’area delle Ferrovie esiste da tempo una preziosa attività sociale e culturale svolta da Scup, una delle più attive associazioni di giovani che tentano a fatica di riempire di contenuti sociali quartieri dormitorio. Scup svolge a fatica le sue attività solo grazie al lavoro volontario di tanti giovani.

Se davvero Ferrovie vogliono migliorare Roma, devono prevedere almeno un parco e la realizzazione di un centro sociale di quartiere dove proseguire la meritoria azione di inclusione sociale. Un salto qualitativo che la città attende da tempo.

Il comune di Roma dovrebbe prendere spunto dalla vicenda Autostrade: solo l’azione rigorosa delle amministrazioni pubbliche e la disponibilità degli operatori privati, possono restituire una speranza alle città che nella stagione delle privatizzazioni sono diventate desolati deserti sociali.