Il governo, a quanto pare, non intende fare passi indietro sulla tassazione locale. Torna l’accorpamento dell’Imposta municipale unica e della Tassa sui servizi indivisibili (Imu e Tasi), si dà la possibilità ai comuni di pignorare i conti correnti dei contribuenti infedeli.

Cosa cambia realmente per i cittadini? Nel primo caso, bisogna innanzitutto chiarire che l’aumento dell’aliquota base dell’Imu (passerebbe dal 7,6 all’8,6‰) sarebbe esattamente pari all’attuale aliquota della Tasi (1‰), che, con l’unificazione, scomparirebbe come tassa autonoma. E che anche l’aliquota massima della nuova Imu rispetterebbe la soglia massima prevista attualmente dalla somma delle due imposte. I sindaci, peraltro, potrebbero addirittura azzerarla, nel caso di finanze floride. Ma anche portarla al massimo – ipotesi più plausibile -, senza dover indicare analiticamente, come accade oggi per la Tasi, quali «servizi indivisibili» (strade, sicurezza, illuminazione, ecc.) verrebbero ad essere finanziati. Avrebbero le mani più libere, diciamo. Più seria la questione dei conti correnti. Perché i comuni, con le nuove norme, potrebbero sostituirsi all’Agenzia delle Entrate nelle azioni esecutive contro cittadini morosi. Dopo il primo avviso di accertamento e in assenza di ricorso, potrebbero, in sostanza, mettere le mani direttamente sui conti correnti dei contribuenti.

Entrambe le misure, apparentemente razionali, in linea con lo spirito di un governo che, giustamente, ha dichiarato fin dall’inizio di voler combattere la piaga dell’evasione fiscale nel nostro Paese, rischiano però di abbattersi come macigni sui ceti più deboli della società e soprattutto sui comuni delle aree interne, già soggette a desertificazione economica e spopolamento, dove la seconda casa non è certamente un lusso.

In Italia, c’è una gigantesca questione che riguarda i comuni e la tassazione locale, di cui nessuno sembra volersi occupare seriamente.

Per la stragrande maggioranza dei cittadini italiani, il problema non è l’Irpef, ma il mix micidiale di redditi bassi, alta tassazione locale e costi esorbitanti dei servizi. Le tasse locali non sono progressive, colpiscono ricchi e poveri allo stesso modo. E in molte aree del Paese non sono più sostenibili. I comuni, da parte loro, sono strangolati da regole di bilancio folli, frutto dell’armonizzazione della contabilità locale a quella nazionale ed europea.

Il fiscal compact è arrivato fin nel più piccolo comune dell’entroterra calabrese, per intenderci. Coniugandosi con le aberrazioni del «federalismo fiscale», quello della Lega Nord del 2009.

Ogni anno, i comuni sono costretti ad accantonare, preventivamente, ingenti somme a garanzia della quota dei tributi che con ogni probabilità non incasseranno. Soldi sottratti al bilancio per i servizi essenziali ed il welfare locale. Il risultato, per una miriade di comuni, è stata la produzione costante di disavanzi che li hanno portati, nel giro di qualche anno, al pre-dissesto o al fallimento vero e proprio. Una spirale vorticosa: i cittadini, piegati dalla crisi, non ce la fanno a pagare i tributi locali che di anno in anno diventato sempre più esosi; i comuni, ogni anno, sono costretti a sottrarre preventivamente dal proprio bilancio una somma pari alla percentuale dei tributi non riscossi negli anni precedenti; in molti casi, questo accantonamento, incedendo sui saldi finali, produce disavanzo, che i comuni sono costretti a ripianare aumentando ancora di più le tasse, che graveranno sulle spalle di quella maggioranza che, sebbene a fatica, rinunciando perfino a curarsi, le ha sempre pagate.

Più che consentire ai comuni di svolgere meglio la propria funzione di esattori, accorciando anche i tempi di eventuali esecuzioni forzate, sarebbe il caso di rivedere da cima a fondo l’attuale disciplina dei bilanci locali, facendo tornare lo Stato e la «finanza derivata» per il finanziamento di una quota maggioritaria dei servizi erogati a livello locale.

Proprio mentre si parla insistentemente di «autonomia differenziata», bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che il «federalismo fiscale» è stato un disastro per le autonomie locali, ha scassato l’equilibro tra istituzioni dello Stato. E che mentre a Roma i vincoli di finanza pubblica alla bisogna possono essere anche parzialmente aggirati, per i comuni non esiste alcuno «spazio di flessibilità» e la Corte dei Conti è sempre in agguato.