LE RELAZIONI e i rapporti fra Giappone e Corea del Sud sono multiple e complesse, come del resto è abbastanza normale che sia fra due paesi così vicini e con una storia che nel corso dei secoli si è spesso sovrapposta. Da un turismo che sempre di più porta gli abitanti dell’arcipelago verso la penisola asiatica e viceversa, alla ferita ancora aperta delle comfort women, dai legami, scambi e rapporti economici fra i due paesi, fino al passato coloniale e imperialista del Giappone.

AL KOBE Planet Film Archive, un piccolo cinema e archivio cinematografico fra i più importanti dell’arcipelago, si è svolta una giornata di proiezioni dedicata a sondare alcune sfaccettature che questa complessa rete di rapporti ha tessuto negli ultimi decenni. Il programma era incentrato  su To the Japs: South Korean A-Bomb Survivors Speak Out, un documentario realizzato nel 1971 dal collettivo NDU in cui il gruppo di documentaristi si reca a Busan per intervistare otto donne, quasi tutte nate o cresciute in Giappone, a cui però furono negati i risarcimenti e le cure come hibakusha, cioè coloro che hanno subito danni alla salute a causa delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Subito dopo i bombardamenti e la fine della guerra infatti le donne, come altri coreani nati o che abitavano nell’arcipelago, furono rimpatriate senza che venisse loro riconosciuto nessun risarcimento. Per di più si trovarono culturalmente a metà strada, né «completamente coreane» né «completamente giapponesi», senza contare poi lo stigma che veniva e viene ancora attribuito a chi è stato sottoposto a radiazioni, come insegna ancora tristemente Fukushima. Il documentario è un’esplorazione dei conflitti interiori ed esteriori delle donne, ma anche delle zone povere dove erano costrette a sopravvivere, il negativo della realtà patinata e scintillante che veniva mostrata in un paese che cercava a tutti i costi di lanciarsi verso la modernità.

A QUESTO lavoro sono seguite le proiezioni di due documentari più moderni: in uno dei due un membro del collettivo, che si sciolse nel 1973, e Kim Imman, regista coreano nato e cresciuto in Giappone, si sono recati di nuovo in Corea del Sud nel 2008 per incontrare le otto donne, miracolosamente ancora vive. I due autori scoprono che le condizioni economiche erano molto migliorate nel paese asiatico, ma anche che molti dei problemi legati alla loro salute in quanto hibakusha non erano stati risolti per nulla.

A CONCLUDERE la giornata un altro documentario girato da Imman nel 2011, questa volta incentrato sulle lotte di alcuni disoccupati e senza tetto che abitano lo slum di Amagasaki a Osaka per ottenere diritti basilari come un indirizzo dove ricevere la posta e con cui poter cercare lavoro, e il diritto al voto. Dal documentario si evince che anche in questo gruppo di persone, che si trovano giuridicamente quasi fuori dalla società giapponese, ci sono molti coreani di seconda o terza generazione. La sorpresa per chi scrive è stata vedere il piccolo teatro strapieno per delle proiezioni di lavori così minoritari – e considerando che si trattava di Kobe e non di Tokyo – ed assistere ad una discussione post-proiezioni abbastanza animata dove molte persone del pubblico, non necessariamente interessate al cinema, si sono rivelate proprio coreane di nazionalità giapponese o studiosi della materia. Non solo le osservazioni fatte sono state molto acute, per esempio sull’uso quasi colonialista della lingua giapponese nel documentario del 1971, ma hanno anche messo in luce come molte delle problematiche sollevate da documentari non certo contemporanei sono più che mai attuali e sentite.
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