Il cartellino di artaudiana memoria che intitola il libro di Marco Belpoliti, Pasolini e il suo doppio (Guanda, pp. 192, € 17,00), ammicca intanto alla nuova edizione che raddoppia, quasi, la mole di Pasolini in salsa piccante (2010); più in generale allude però alla doppiezza sottesa a ogni atto espressivo (e prima esistenziale) di Pasolini: lo «scandalo di contraddirsi» che Fortini gli rimproverava – in essa riconoscendosi – come «sineciosi». La fantasmagoria di sdoppiamenti di Petrolio – anticipata da quella meno spettacolare, ma più travagliata, della Divina Mimesis – sarà la sintesi più icastica di un percorso, dunque, paradossalmente coerente. Il titolo allude infine all’immagine sdoppiata del servizio fotografico commissionato in limine a Dino Pedriali (il fotografo da poco scomparso che all’ombra di quest’episodio perturbante ha in parte dilapidato un sicuro talento), da Walter Siti riconosciuto come destinato alla magmatica compagine di Petrolio: «c’è la nudità di Pasolini, il suo sesso esibito, ma anche sottratto nella riflessione delle finestre; come se quello che si vede non fosse solo un corpo, bensì il fantasma di un corpo. Meglio: il doppio corpo di Pier Paolo Pasolini».
Dopo queste pagine pionieristiche di dodici anni fa, numerosi sono stati gli studi che hanno interrogato queste immagini terminali (ricordo almeno quelli di Luca Caminati, Maria Rizzarelli, Corinne Pontillo, Marco Bazzocchi, Gian Maria Annovi e Ara Merjian), e più in generale il rapporto di Pasolini con le sperimentazioni, da lui così disprezzate in ambito letterario, che invece tanto lo ispiravano in campo visivo. La «poesia visiva» appunto («peraltro assai leggibile», a differenza di quella dei «nemici» della Neoavanguardia) dell’Iconografia ingiallita, sospirato colpo di pollice alla Divina Mimesis, è un monumento all’angoscia dell’influenza sotto la specie del guanto di sfida. Pasolini non fu certo l’unico della sua generazione a ricusare quelle poetiche così aggressive, e al contempo a guardare con interesse nel loro campo; ma è l’unico che – così facendo alzare, agli «amici», più d’un sopracciglio – bruciò alle sue spalle la nave dello specifico letterario per avventurarsi nell’expanded poetry del suo tempo.
La «fulgurazione figurativa» attribuita alla lezione di Longhi (che dà il titolo alla bellissima mostra della Cineteca di Bologna, recensita qui a fianco) è per lui, in quei primi Sessanta, una vera via di Damasco. Dopo il cinema sperimentando un po’ tutto: dal found footage al fumetto sino agli iconotesti terminali – compiuta La Divina Mimesis, solo virtuale purtroppo Petrolio – che conferiscono piena cittadinanza, anche da noi, a questo non-genere «carsico».
Il vero «doppio» di Pasolini, il più problematico compagno segreto della sua parola, è dunque l’immagine in sé. Il titolo attuale di Belpoliti si prestava forse più alla copertina dell’edizione precedente: dove dell’icona canonica di PPP si scopriva un doppio perturbante nel profilo nero di Ugo Mulas. Ora invece in copertina – nella «fotografia umana» di Mario Dondero – c’è un doppio benevolo: è Susanna Colussi che guarda nell’obiettivo dietro il sorriso stanco, ma per una volta sereno, di suo figlio. Senza la terribilità medievale delle icone del Vangelo secondo Matteo, e soprattutto del bergmaniano Teorema, «Susanna» – dice Belpoliti in uno dei capitoli aggiunti – «è come l’ombra stessa del figlio». Umana e troppo umana, forse: stando al grido d’amore, e del suo contrario, che è Supplica a mia madre, highlight di Poesia in forma di rosa.
A partire da questi primi Sessanta, l’opera di Pasolini è un viluppo di tensioni. Per districarvisi occorre unire alla cronologia più minuziosa un’occhiuta filologia visiva, anzi intermediale: che si misuri con la «tutt’altra filologia», ricordata da Contini, dello stesso Pasolini cineasta. Una strada che proprio Belpoliti, a suo tempo, ha aperto a ormai più d’una generazione di studiosi. E chi l’ha applicata con la maggiore acribia, al «caso» in oggetto, credo sia Franco Zabagli. A suo tempo curatore con Siti del «Meridiano» Per il cinema di Pasolini, è stato a lungo conservatore delle sue carte al Gabinetto Vieusseux di Firenze. Con l’understatement di tanti maestri della filologia, questo studioso impeccabile aveva sempre omesso di raccogliere i propri lavori in volume; e il suo titolo, di persino masochistica sprezzatura, vale un autoritratto: Filologia minima su Pasolini e altro (pp. 305, € 22,00, cogli stessi raffinati tipi di Ronzani per cui ha curato la bellissima anastatica di Poesie a Casarsa) non risponde affatto al rilievo di studi come quello sugli interventi di Pasolini nelle Notti di Cabiria di Fellini (due modi opposti di guardare agli stessi scenari), o delle letture di Mamma Roma o Una disperata vitalità, l’episodio più «cinematografico» di Poesia in forma di rosa: dove l’indicazione «come in un film di Godard» non si riferisce solo al tono e ai temi di questo folgorante nastro verbale, ma ai modi stessi del suo découpage: che Zabagli può accostare a quelli del mediometraggio coevo La rabbia (forse l’opera pasoliniana più cresciuta nella critica recente), ricordando pure l’archetipo di un «poemetto in forma di sceneggiatura», Il giovine della primavera, scritto per i GUF da un Pasolini men che diciottenne ispirato, forse, dal classicismo suprematista di Leni Riefenstahl (nel ’38 Olympia veniva premiato a Venezia).
Dettagli forse «minimi», che però après coup spalancano percorsi di portata inaspettata: secondo la migliore tradizione del circolo ermeneutico (dove sulla filologia moderna imparata da Rosanna Bettarini fa aggio, forse, la «memoria poetica» di un filologo classico come Giorgio Pasquali e di un linguista come Giovanni Nencioni). Ricorda per esempio Zabagli l’inciso di una lettera di Pasolini a Edoardo Bruno, nel ’59, nel mandargli la sceneggiatura della Notte brava, scritta per Bolognini, annunciando di lavorare in parallelo a una sua forma narrativa (poi in Alì dagli occhi azzurri). Dice Pasolini che le due versioni serviranno al «“filologo” (quando, finalmente, ci si occuperà di cinema filologicamente) che volesse operare dei confronti tra testo scritto e testo girato»: perché l’altra – davvero un doppio narrativo del testo «per il cinema» come clamorosamente, poi, Teorema – sarà un «vero e proprio monstrum delle nuove lettere». C’è già, in nuce, la «struttura che vuol essere un’altra struttura» di Empirismo eretico, chiave delle «opere da farsi»; ma fors’anche il primo, remoto annuncio di quel vero e proprio monstrum, di quell’inesauribile libro doppio che sarà, è stato, continua a essere Petrolio.