Forse anche in Parlamento, in questi giorni concitati di discussione della Legge di Bilancio, qualcuno ricorderà il famoso Comma 22 tratto dall’omonimo romanzo antimilitarista di Joseph Heller: «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo», a sua volta derivato da un frammento di Epimenide.

Ecco che oggi questo paradosso sembra descrivere perfettamente la situazione in cui si trova l’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, parte fondamentale del nuovo impianto che dovrebbe gestire questi particolari aspetti della politica estera nazionale.

L’Aics è stata, infatti, concepita, all’interno della riforma della cooperazione allo sviluppo, come vera e propria agenzia operativa, sul modello di altre cooperazioni europee che hanno pensato bene di sganciare la parte diplomatica e politica da quella eminentemente operativo gestionale. La riforma è del 2014 e fu salutata, specie dalle Ong di cooperazione ed aiuto umanitario, come una reale innovazione rispetto alla precedete, approvata nel lontano 1987, ancora figlia delle logica da Guerra Fredda. Ora, per rendere l’Agenzia realmente operativa, c’è bisogno, come dice chiaramente la legge che l’ha istituita, di personale adeguato, sia in senso qualitativo, sia in senso quantitativo.

Ebbene ad oggi l’Agenzia soffre di una grave carenza in questo senso che mina alle basi il suo mandato, mettendo tutta la cooperazione in uno stato di sofferenza oggettiva, che gli sforzi e l’impegno della dirigenza e del personale attualmente in forze non possono certo superare da soli.
Oltretutto, i concorsi per attribuire il personale sono stati decisi da tempo, ma mancano ancora le modalità attuative.

Dunque, prima parte del Comma 22: anche se quest’anno i fondi per le attività di cooperazione fossero rimpinguati al punto da far risalire la parte del Pil dedicata ad un pallido 0,2%, ben lontano sia dagli impegni presi sia a livello europeo, 0,3% sia internazionali 0,7%, la mancanza di personale renderebbe difficile la gestione di questi fondi aggiuntivi, ammesso che nella Finanziaria attuale le sensibilità in questo senso e la coerenze relativa portino il Paese ad uscire dal cono d’ombra degli ultimi donatori.

Ma ecco che scatta la seconda parte del Comma 22: al momento l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo è alloggiata in una struttura nata nel lontano 1985 per ospitare il leggendario Fondo Aiuti Italiani, costituito con una dote di 1900 miliardi delle vecchie lire allo scopo di assicurare “la sopravvivenza di almeno tre milioni di persone minacciate dalla fame, dalla denutrizione, dal sottosviluppo « nell’Africa subsahariana» (sic!).

Senza entrare nella storia complessa del Fondo Aiuti Italiani e dei suoi scandali, ciò che oggi ci resta, tra le altre cose, è questo insieme di uffici, decisamente inospitali per una Agenzia pienamente a regime.

Dunque ecco il paradosso completo: l’Agenzia non può funzionare perché non ha il personale né i fondi necessari, ma anche se così fosse non potrebbe egualmente farlo per mancanza di una sede adeguata. Non pensiamo di dover commentare ulteriormente questo stato di fatto.

Il problema è che chi ha le responsabilità politiche di tutto questo dovrebbe intervenire, e dato che alcuni emendamenti della maggioranza alla Legge di Bilancio sembrano andare in questo senso, la richiesta di chi vuole una cooperazione allo sviluppo funzionante non può che essere quella di vederli approvati.