Un comizio, una girandola di promesse, una performance televisiva rivolta ai telecittadini. Più che parlare alle senatrici e ai senatori seduti ad ascoltarlo, ai quali, del resto, annunciava il prossimo funerale politico, Renzi ha scelto il tono da talk-show. Come il Berlusconi dei tempi migliori, il presidente del consiglio non ha rischiato di farci capire come ci porterà fuori dal baratro in cui siamo, quale forza e solidità ha il suo progetto. Ha chiesto di credere in lui, nel suo coraggio, nella sua virtù salvifica. Ha raccontato la sua vita da sindaco fino allo sfinimento. Come è bravo lui a parlare al cassaintegrato, alla mamma, agli studenti. Mancava l’anziana signora bisognosa di cure dentistiche, ma c’era la ragazza sfregiata dall’acido, l’amico senza lavoro, i due marò.
Con le mani in tasca, battibeccando con i parlamentari a 5Stelle (io sono il cittadino, voi la nuova casta, io non ho paura del voto, voi in Sardegna non vi siete presentati), Renzi ha esordito con l’urgenza delle riforme. Senza, tuttavia, sciogliere l’ambiguità sulla legge elettorale (se e come vincolarla alla riforma del senato), elemento decisivo per tenere insieme la prima maggioranza (con Alfano) e la seconda (con Berlusconi), vera assicurazione sulla vita del governo.
In un’ora di intervento Renzi non ha sviluppato elementi progettuali, né chiarito come il libro dei sogni sarà tradotto in fatti concreti. Non ha spiegato perché dovrebbe riuscirgli l’impresa di pagare i 45 miliardi di crediti agli imprenditori, né rivelato come farà a «ridurre il cuneo fiscale di due cifre». Forse perché se avesse dovuto mettere nero su bianco gli strumenti per raggiungere l’obiettivo, forse avrebbe dovuto ammettere che le sue proposte sono le stesse di quelle scritte da Enrico Letta nel programma che l’ex premier ha, inutilmente, raccontato nella sua ultima conferenza stampa a palazzo Chigi. In compenso ha trattato al ribasso la partita dei diritti civili, e riempito di luoghi comuni il capitolo sulla giustizia, facendo attenzione a non disturbare chi ne possa temere una vera riforma.
A spingere il premier verso il traguardo della fiducia è il vento da ultima spiaggia, lo stesso che gli ha consentito di guadagnare il via libera del proprio partito per questa avventura a palazzo Chigi. Un Pd che lo ha applaudito timidamente durante il discorso, commentando poi con alcune dichiarazioni molto polemiche, rivelatrici di un imbarazzo appena dissimulato. Come di chi si appresta a votargli la fiducia turandosi il naso, in attesa di tempi migliori che non arrivano mai, salvo prometterli sempre.
L’unica cosa certa, tutt’altro che rassicurante, è la natura politica di questo patto di potere impastato di conflitti di interesse. Una natura che illumina, o, meglio, opacizza, tutta l’operazione di cui siamo spettatori. Si tratta del rivendicato carattere politico dell’alleanza. Se con Letta, e prima con Monti, l’emergenza economica veniva portata a giustificazione dell’innaturale, indigesto connubio con Berlusconi e Alfano, ora proprio l’emergenza economica è la ragione per far diventare eterne queste intese con il centrodestra, fino a un governo di legislatura. Il centrosinistra sparisce anche dall’orizzonte mentre sale al potere l’uomo solo al comando.