Il fantasma di al-Maliki non abbandona l’Iraq. Un fantasma minaccioso perché, ad un anno dalla sua sostituzione con il collega di partito al-Abadi, detta i termini della politica interna. Lo si è visto chiaramente lunedì: il parlamento iracheno all’unanimità ha bocciato l’iniziativa del primo ministro al-Abadi, il pacchetto di riforme volto a intaccare il sistema di corruzione su cui si fondano le istituzioni del paese.

I 328 parlamentari si sono detti pronti a discutere e votare le riforme, ma non daranno il via libera se non saranno consultati. «Un atto incostituzionale», aveva tuonato pochi giorni prima il suo predecessore, Nouri al-Maliki, la cui contrarietà al pacchetto ha convinto i 60 parlamentari di Stato di Legge (il partito di al-Abadi) a minacciare la sfiducia al governo se non ci fosse stato un passaggio parlamentare.

Per capirne le ragioni è necessario un passo indietro: tra le riforme caldeggiate c’è il disboscamento delle miriadi di posizioni politiche e amministrative fatte fiorire dal predecessore, sostenuto dagli Stati uniti che hanno imposto una distribuzione settaria del potere sul modello libanese. Da qui la proliferazione di poltrone da vice presidente (ben tre) e da vice premier e l’assunzione di un numero elevatissimo di dipendenti governativi, necessario a mantenere un radicato sistema clientelare e autorità parallele allo Stato.

Tra le proposte ci sono infatti la cancellazione delle figure di vice presidenti e vice premier, il taglio del 45% degli stipendi dei parlamentari, il taglio del 20% dei salari dei dipendenti governativi, il licenziamento di funzionari incompenti o corrotti. Riforme che dovrebbero aiutare il paese ad uscire dal tunnel della corruzione strutturale, del clientelismo radicato e dell’incompetenza che pervade ogni istituzione. Ovvero, tutti quei problemi che hanno impedito la ricostruzione delle infrastrutture, la ripresa economica, la creazione di una rete di servizi efficiente, una risposta all’avanzata dell’Isis ad ovest.

L’assenza di trasparenza nelle pratiche e nelle politiche pubbliche ha garantito ad un sottobosco di poteri ufficiosi di usare lo Stato per distribuire favori e intercettare consenso. Contro tale sistema sono scesi in piazza tra agosto e settembre migliaia di iracheni che hanno affrontato le cariche della polizia e il massacrante caldo estivo per protestare contro la corruzione sistemica di Baghdad: nelle principali città sciite, Baghdad, Nassiriya, Bassora, Najaf, in migliaia hanno chiesto la redistribuzione equa delle ricchezze, politiche di incremento dell’occupazione, lotta alla corruzione.

La bocciatura parlamentare non colpisce solo al-Abadi, drammaticamente indebolito da un voto orchestrato dal suo stesso partito. Colpisce anche la popolazione che ancora una volta paga l’autorità di fatto che al-Maliki si è costruito in otto anni al potere. Da vice presidente, carica riconosciutagli dopo le dimissioni da premier, non può permettere che l’avversario al-Abadi lo costringa in un angolo. Come non può permettere che licenzi 130 funzionari di alto grado, molti dei quali sua diretta emanazione: in pericolo c’è un intero sistema di potere, parallelo a quello dello Stato e che ha garantito all’ex premier autorità e ricchezze.

È di pochi giorni fa il rapporto-choc della Commissione Irachena di Integrità, secondo cui negli anni di governo al-Maliki sono «evaporati» 500 miliardi di dollari, la metà del denaro entrato nel paese con la vendita di greggio e i finanziamenti internazionali per la ricostruzione. Una cifra stellare, la cui misteriosa scomparsa viene imputata dalla Commissione al «più grande caso di corruzione della storia, [per il quale] sono stati denunciati 600 funzionari, tra cui ministri, vice ministri, direttori generali, alcuni condannati a 130 anni di prigione».

Il timore, prospettato da alcuni analisti, è di una nuova battaglia politica all’interno del partito di governo, Stato di Legge, magari guidata proprio da al-Maliki che lasciò il governo dopo una strenua resistenza e dietro le pressioni degli Usa e dell’Ayatollah al-Sistani. Una battaglia che – scrivono giornalisti iracheni – potrebbe portare ad un golpe interno per la rimozione di al-Abadi.