Venticinque milioni di euro. È questa la cifra «donata» da Diego Della Valle – presidente e Ad del noto marchio Tod’s – per i restauri del Colosseo. Un accordo tra privati e Mibact che ha preceduto di poco l’Art Bonus, la legge del 2014 in favore del mecenatismo culturale. Della Valle non può dunque definirsi tecnicamente un mecenate bensì uno sponsor, sebbene – in questo caso – il linguaggio non dovrebbe cambiare la sostanza dell’operazione e soprattuto l’intento di offrire un servizio alla collettività.

Dimenticate le polemiche iniziali sull’utilizzo esclusivo dell’immagine dell’anfiteatro Flavio concessa al patron di Tod’s per ben quindici anni, i lavori di pulitura della facciata dell’antico edificio per spettacoli sono stati consegnati negli scorsi giorni, non senza perplessità. Nel mirino di alcuni specialisti l’eccessivo candore della pietra, ora suscettibile di rendersi ricettiva a nuovi attacchi atmosferici. Senza ombre, invece, la soddisfazione di sponsor, premier e ministro dei beni culturali che, durante la conferenza stampa al Colosseo, hanno messo in scena un trionfo degno di quella propaganda imperiale che per secoli ha riecheggiato tra le tribune dell’anfiteatro. Come se tutto ciò non bastasse, a trasformare un evento culturale nel solito siparietto politico, il 5 luglio Tomaso Montanari ha pubblicato sulla Repubblica.it le foto di una cena privata svoltasi al Colosseo la sera del 30 giugno scorso, denunciando, grazie alla soffiata di una guida, i disagi provocati a cittadini e turisti.

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Foto Lapresse

Secondo il racconto dell’anonimo archeologo – manco a dirlo, uno dei tanti precari super titolati che prestano servizio nei beni culturali – nella giornata del 30 il monumento sarebbe stato chiuso per circa due ore mentre per il restante orario di apertura, ai visitatori muniti di biglietti e prenotazioni web, sarebbe stato negato l’accesso a 2/3 dell’edificio. Tutto per permettere a una nutrita squadra di hostess e camerieri di predisporre, sotto gli occhi attoniti dei presenti, tavoli e decorazioni. La foto del terzo anello dell’Anfiteatro Flavio – uno dei monumenti più visitati al mondo – apparecchiato a festa, non solo suscita rabbia e riprovazione per il gesto di volgare arroganza ma costituisce anche uno schiaffo morale al senso della Storia. Se infatti il riutilizzo dei monumenti antichi è auspicabile in assenza di pericolo per l’integrità fisica delle strutture, non meno importante è considerare la memoria che ogni testimonianza del passato porta con sé. Come si può allestire un banchetto in un luogo dove la sabbia dell’arena si mescolava al sangue di uomini e bestie? Cattivo gusto, sì, ma anche sfoggio di potere e denaro a tutti i costi.

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Cosa c’entri, infatti, con la «rinascita» del Colosseo un risotto scampi e gamberetti rossi servito tra le arcate con un Verdicchio del 2013, non è dato sapere. D’altra parte la cena era per soli 300 invitati, un pout-pourri di mondanità, che si è goduta il privilegio di un concerto di Zubin Mehta come se la porzione di arena fruibile fosse il patio di casa Della Valle. E pensare che solo un anno fa, nel settembre 2015, Renzi e Franceschini andarono su tutte le furie per un’assemblea sindacale, regolarmente annunciata dagli operatori del Colosseo, a causa della quale i cancelli dell’anfiteatro rimasero chiusi per qualche ora. Da quell’episodio scaturì una legge che equipara il patrimonio culturale, storico e artistico nazionale a servizi essenziali quali scuola, sanità e trasporti.

Da un lato, dunque, un diritto dei lavoratori che diviene intollerabile in nome dell’altrettanto bistrattata cultura, dall’altra un privilegio che può esser impunemente sbattuto in faccia alla società civile, finta destinataria dell’evergetismo in chiave renziana. Davanti alle luci del tricolore proiettate in stile Las Vegas sul Colosseo rimesso a nuovo, non resta che ripristinare le antiche tradizioni dell’anfiteatro.
Pollice verso per quest’orrido spettacolo, che dimostra ancora una volta come la strategia governativa in materia di beni culturali si orienti non a una collaborazione proficua fra pubblico e privati, ma di fatto consenta a quest’ultimi di prevaricare, sottomettendo il valore di arte e archeologia ai più infimi interessi di mercato.