Esattamente come il tenace colonnello Buendia di Cent’anni di solitudine, che per trentadue volte arma una rivolta contro il potere, che regolarmente fallisce, ma che ogni volta diventa la premessa per la successiva, ci troviamo a discutere di riorganizzazione della sinistra. Il farlo su questo giornale mi conforta se non altro perché qualcosa ha tenuto di queste tenaci pulsioni .

L’intervento di Alfonso Gianni coglie un aspetto che giustifica la reiterazione del reato. L’opportunismo con cui D’Alema gioca con le speranze e le aspirazioni di migliaia e migliaia di reduci dai diversi cantieri della sinistra, insieme alle inconsistenze dei cespugli che circondano il muretto del Pd, non può rimanere l’unica eredità di quelle esperienze.

Alfonso indica una strada di buon senso, sollecitando un inventario della buona volontà. Io vorrei integrare quel metodo partendo dalla citazione finale del suo intervento, il richiamo di un sempre troppo poco rimpianto Franco Fortini a non essere «materialisti con gli altri e idealisti con se stessi».

La ragione per cui oggi la sinistra è poco più che qualche sindaco, e discontinue presenze sindacali, non è la conseguenza di gruppi dirigenti insicuri, incapaci e deboli, e tanto meno svogliati. Lo stato di prostrazione globale della sinistra nel mondo ci dice, materialisticamente, che siamo vittime di contraddizioni reali e non di complotti ideali.

A differenza di quanto teorizzava Luckacs circa la necessità per « i rivoluzionari veri di non farsi condizionare dai fatti», quanto è accaduto da ormai almeno 3 decenni, diciamo dal fatidico ’89, ha messo fuori gioco la sinistra del lavoro.

Dico subito che io penso che il buco nero in cui è caduta l’esperienza del 900 della sinistra è proprio il suo legame, per quanto ideologico ed a volte solo formale, con il concetto di centralità del lavoro nella società, rispetto ad un passaggio che ha visto il capitalismo informazionale, come dice Manuel Castells «produrre ricchezza mediante informazione». Su questo punto credo che abbiamo ancora troppo poco lavorato, lasciando a cosidetti esperti del settore la responsabilità di darci le misure della nuova società del calcolo.

Fra qualche settimana, nel marzo prossimo, cadrà il sessantesimo anniversario del mitico convegno dell’Istituto Gramsci sul neocapitalismo.
Nel 1962 il gotha dell’intelligenza della sinistra ebbe la forza e la voglia di mettersi attorno ad un tavolo per misurarsi su quelle irrequietezze che stavano turbando gli assetti sociali e le certezze dei vertici dei partiti. “Fu l’ultima volta in cui il futu«o camminava accanto a noi», scrive Rossana Rossanda nel libro su quegli anni. Fu un dibattito straordinario, forse davvero l’unica volta in cui la cultura comunista guardava ad occidente, con occhi curiosi e indagatori. Un dibattito innovativo, dirompente, che colse con forza e lucidità il passaggio in corso con l’avvento del consumismo come macchina di integrazione sociale. La relazione di Trentin, gli interventi di Magri, Libertini, Foa, aprirono squarci nell’ortodossia prudenziale togliattiana che Amendola subito richiuse, disattivando la carica che quelle riflessioni avrebbero potuto avere…

Sembra proprio un destino che quella lampada di Aladino della sinistra sia rimasta da allora avvolta nei fumi di una continua esorcizzazione che ha impedito in più occasioni di riprendere con quella eversione, il filo della ricerca. Usare oggi quella scadenza per aprire un nuovo cantiere e mettere all’ordine del giorno, per dirla con Marx, la natura e struttura del mulino digitale, potrebbe essere un percorso concreto ed efficace, almeno per indentificare i nodi reali del conflitto sociale inespresso, lasciandoci alle spalle le vanità e le grette ambizioni personali.

Proprio in questi giorni la recrudescenza della pandemia, con la centralità che stanno assumendo i sistemi di calcolo, ci inchiodano ad una realtà ineludibile: l’accoppiata vaccini e algoritmi determina le nuove gerarchie globali, fissando una nuova dialettica sociale fra calcolanti e calcolati. Quale sinistra può rispondere a questa domanda? Quale sindacato può ambire a rappresentare ruolo e spazio dei bisogni sociali nei processi di automatizzazione ? Quale modello di autonomia e auto organizzazione può inserirsi nella competizione fra proprietà e autarchia statale nel controllo dei processi di bioingegneria ? Sono i nodi su cui varrebbe la pena giocarsi il 33 esimo buono rivolta del colonnello Buendia, cercando, proprio come scriveva Garcia Marquez di «guardare oltre al fiume e non rimanere come asini fermi dietro al muretto».