Nel 1969 veniva pubblicato in Francia Ritorno a Roissy, ideale seguito del famoso romanzo Histoire d’O, scritto da Anne Desclos, sotto pseudonimo, quindici anni prima. Quest’ultimo rimane uno dei romanzi erotici più significativi e letti degli ultimi due secoli, tanto che nel corso degli anni ne sono state fatte anche alcune versioni cinematografiche e televisive. Pochi sanno però che esistono delle riduzioni per il grande schermo anche del secondo libro, una delle quali, Les fruits de la passion, fu liberamente adattata e diretta nel 1981 dal regista giapponese Terayama Shuji, con interprete principale Klaus Kinski.

Il film, che partecipò nello stesso anno al festival di Cannes, non è forse tra i lavori più conosciuti del poeta, attore e regista giapponese, una delle figure più fuori dagli schemi ed importanti nel panorama underground e artistico della seconda metà del ventesimo secolo dell’arcipelago, ma recentemente è stato rilanciato a livello mondiale dalla piattaforma streaming Mubi, una buona occasione per riscoprirlo.
Celebre in Occidente soprattutto per i suoi corti sperimentali e per lungometraggi come Emperor Tomato Ketchup, allucinata fantasia rivoluzionario-surreale, dove i bambini comandano lo stato delle cose in un Giappone dove tutto è permesso, dall’incesto alla sodomia, Terayama è stato davvero un artista a tutto tondo: teatro, poesia, ma anche un appassionato di boxe.

La forte carica surreale, erotica e quasi circense che caratterizzava le produzioni teatrali del suo gruppo Tenjo Sajiki, si ritrovano tutte in Les fruits de la passion, una coproduzione franco giapponese ambientata in un bordello a Shangai negli anni trenta, durante l’occupazione giapponese. Ritornano i due protagonisti di Histoire d’O, Stephen e O, interpretati da Kinski e Isabelle Illiers, e la loro perversa relazione di amanti nel piacere-dolore, che vede la ragazza lavorare nel bordello e darsi ai clienti in presenza di Stephen.

La trama è piuttosto leggera e volatile, anche le piccole storie secondarie: l’amore di un giovane per O e la tentata rivolta di un gruppo di cinesi contro l’invasore. Ma chi conosce Terayama sa che spesso nei suoi lavori è la forma che fa il contenuto. Una messa in scena folgorante che non risparmia corpi nudi e mostra tutto quello che è possibile mostrare, finanche i genitali, nella versione giapponese oscurati dal mosaico, ma anche situazioni surreali e comiche ed attimi di poesia visuale e malinconica. Terayama è un maestro nell’uso dei colori e dei filtri, i quasi ottanta minuti della pellicola sono un alternarsi trionfale di tableau vivant dai colori sgargianti ma anche sciatti, fra pizzi, decorazioni, e pappagalli che svolazzano, specchi e frustate.

Un caos visivo ben ordinato che riverbera con quello delle lingue parlate nel film, dialetto cinese, francese, inglese e giapponese che si sovrappongono e riportano l’attenzione su un elemento che forse non viene a galla ad una prima visione, quello coloniale. Come hanno fatto acutamente notare alcuni critici, nel «gioco» psicologico sadomasochista fra Stephen e O, che la porta a lavorare nel bordello, la ragazza non rappresenta un divenire-prostituta, ma va a rappresentare la donna asiatica, in questo caso cinese, e più in generale la posizione di sottomissione delle popolazioni asiatiche verso l’occidente colonialista, ma anche di quelle locali verso l’imperialismo giapponese. Una delle scene più intense del lungometraggio è in questo senso quando tutte le donne si fermano come in un quadro e ascoltano in silenzio i passi dell’esercito marciare per le strade.

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