Paul Durand-Ruel, dopo una vita passata a comprare, collezionare ossessivamente, rivendere e difendere a spada tratta i suoi artisti, si fece ritrarre soltanto nel 1910. Lo vediamo seduto, avvolto dal tepore domestico della sua poltrona, con un’aria serena e lo sguardo fisso oltre la cornice del quadro. Il suo corpo è impastato nei morbidi colori dell’amico Renoir, che fu una delle presenze costanti e più leali, anche nei periodi torvi dei ricorrenti rovesci finanziari. È il 1910 e quel dealer che inventò non solo l’Impressionismo, ma anche il mercato moderno, con le sue strategie mediatiche e un meccanismo delle quotazioni capace di girare solo su stesso (cosa che, da allora in poi, è rimasta legge in ambito comtemporaneo), è già quasi in pensione. Tre anni dopo, si ritirerà dagli affari e lascerà la conduzione delle sue gallerie europee e americane ai figli. Aveva iniziato a lavorare in famiglia, finirà in famiglia.

Gli esordi in quel campo, infatti, erano avvenuti seguendo le orme del padre che, al negozio, aveva aggiunto una galleria, promuovendo i suoi «beniamini» anche con raccolte di stampe. Ruel non interruppe la tradizione, continuando a respirare l’odore acre dei dipinti freschi di pennellate negli studi dei pittori, o direttamente a casa propria. Per far ritrarre i suoi eredi da Renoir, non aveva disdegnato di condividere la sua dimora estiva con l’artista, chiedendo aiuto per trovare l’alloggio adatto a Monet. E quando quest’ultimo gli inviava lettere traboccanti di disperazione e di insoddisfazione per l’opera in corso, lui rispondeva con una spedizione in soldi, impacchettando anche una buona dose di coraggio e non mancando mai di invitare Claude a stare da lui, così da riconsegnargli fiducia e nuovo slancio. «Senza Paul saremmo morti di fame», dirà riconoscente Monet due anni dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1922. Non aveva tutti i torti. Durand-Ruel non era stato solo un mercante: al pari di Paul Guillaume per la Scuola di Parigi e Modigliani, o di Ambroise Vollard per Cézanne, era stato anche un mecenate, un amico su cui poter contare, una tasca dove affondare le mani quando erano vuote. Pagava i debiti degli impressionisti in bolletta, li stipendiava, saldava i conti con i loro fornitori, il sarto, il medico. In cambio, si assicurava uno sguardo in esclusiva, la prima scelta, il monopolio su tutto ciò che usciva dagli atelier. Faceva pure le autentiche.
La mostra alla National Gallery di Londra (divenuta «inglese» dopo la tappa parigina al Musée du Luxembourg, in corso fino al prossimo 31 maggio) racconta in 85 capolavori una parabola esistenziale di cui non v’è traccia sui manuali della storia dell’arte. O, meglio, lì vi si accenna di sfuggita, ma qui, improvvisamente, i quadri degli impressionisti prendono vita. E disegnano a tutto tondo un’epoca, la sua quotidianità, le sue ascese e cadute.

Renoir, Paul Durant Ruel, 1910
Renoir, Paul Durant Ruel, 1910 courtesy Durand Ruel & Cie

Doveva avere un carattere di ferro Paul Durand-Ruel per cominciare a credere fermamente nel suo intuito di 24enne davanti a un quadro di Eugène Delacroix La morte di Sardanapalo, all’Expo Universale del 1855, per poi proseguire con l’arte impressionista, sbeffeggiato e additato come un pazzo da più parti. Se ne infischiò del tono malevolo della critica e resistette stoicamente a una serie di rovesci finanziari che lo portarono sull’orlo del baratro a più riprese. Ruel non godeva di grandi capitali di famiglia: per far fronte alla sua passione e imbastire quel mestiere di gallerista e mercante «globale» doveva ricorrere a prestiti, finanziatori privati, banche. A salvarlo dal crack fatale fu l’America, il continente senza pregiudizi culturali perché privo di una lunga consuetudine accademica.

Anche Londra fu un punto di approdo: vi si rifugiò nel 1870, in fuga dalla guerra franco-prussiana, con le sue opere al seguito. Aprì una galleria in New Bond Street, venne in contatto con gli altri esuli, tra cui Monet e Pissarro (che lasciò una tela in galleria in assenza di Ruel, suscitandone l’entusiasmo al rientro) e si scontrò con un mercato poco disponibile agli «stranieri». Farà in tempo a tornare a Parigi, a veder morire la moglie di polmonite, rimanendo vedovo, 40enne e padre di cinque figli sotto i nove anni (non si risposò più), a salpare per gli Stati Uniti e a riaffacciarsi in Inghilterra per godersi finalmente il riconoscimento della «scuderia» impressionista. La mostra che allestì a Londra nel 1905, alle Grafton Galleries con 315 opere, resta una delle pagine più belle scritte dalla storia dell’arte agli albori del XX secolo.
Ma sarà l’America a fare da sponda generosa al suo folle sogno, affamata com’era di germi culturali da innestare sulle proprie giovani tradizioni. La pittrice statunitense Mary Cassatt aiutò il suo dealer e promoter a introdursi: subito, gli presentò i coniugi Havemeyers. Quei ricchi imprenditori dello zucchero, rimasero stregati dal baluginìo della luce e dalla libertà di composizione dei pittori francesi, trasformandosi in felici collezionisti.

Solo Monet aveva manifestato qualche contrarietà per quel viaggio oltre confine: non gli era piaciuto veder partire i suoi quadri in direzione del «paese degli yankees». Nel 1888 Ruel, invece, fiducioso, aprì una galleria a New York e gli affari andarono a gonfie vele tanto che nel 1894 la maggior parte dei suoi debiti era estinta. Era risorto. E l’eco del suo successo (in America, da principio, era conosciuto solo come il difensore accanito dei pittori della Scuola di Barbizon) ebbe ripercussioni profonde anche sul Vecchio Continente. Tornò vincitore.
Paul Durand-Ruel può essere considerato la prima figura di manager culturale mondiale, un talent scout dal fiuto infallibile, con un allure più romantico dei Gagosian e Saatchi così come li conosciamo oggi. Un uomo che acquistò, collezionò, spronò, consigliò ed espose in personali e collettive gli artisti in cui credeva (tra il 1870 e il 1922 organizzò circa duecento mostre a Parigi e centotrenta a New York).

Il Gran Salon della casa del mercante, riproposto in mostra alla National Gallery
Il Gran Salon della casa del mercante, riproposto in mostra alla National Gallery

La sua dedizione agli impressionisti aveva un qualcosa di mistico e ultraterreno. Monarchico per storia famigliare (suo nonno, notaio reale, aveva rischiato la ghigliottina con la Rivoluzione francese), poco propenso a prendere le parti di Dreyfus nell’affaire che sconvolse la Francia, cattolico fervente, non fece mai precipitare le sue convinzioni religiose e politiche nell’arte. Sostenne comunque Pissarro, ebreo e anarchico e aiutò il comunardo Courbet a nascondere i suoi dipinti per evitare la confisca dello Stato. Seppe anche pubblicizzare al meglio i quadri che amava: la sua casa – alle pareti del Grand Salon c’erano le opere preferite, furoreggiavano i balli di Renoir e la porta con le nature morte di Monet – era aperta al pubblico. Bastava avvertire il giorno prima della visita; nel tempo, a causa delle resse, furono contingentate le entrate.

Ruel comprò e rivendette almeno mille Monet e millecinquecento Renoir, insieme a centinaia di capolavori di Pissarro, Sisley e Degas, una collezione la sua, dal valore inestimabile, che attualmente risulta sparsa nei musei di tutto il mondo. Testardo come pochi, si impossessò di interi stock (per Edouard Manet tutto cominciò con un Salmone) quando non interessava a nessuno farlo, accordandosi con gli artisti sui prezzi, valorizzando per la prima volta quei «cinque o sei lunatici di fronte ai quali il pubblico scoppiava a ridere», come scrisse il critico Wolff su Le Figaro. La sua galleria parigina ha smesso di vendere soltanto nel 1974.