Sarebbe piaciuto a Carl Schmitt lo spettacolo di un parlamento che interrompe per 30 volte il discorso del presidente della Repubblica per manifestare il pieno consenso: «La forma più naturale della manifestazione diretta della volontà di un popolo è il grido della moltitudine riunita che approva o respinge l’acclamazione».

Nel momento del consenso espresso nella forma del plebiscito c’è qualcosa di irreversibile, scrive ancora il pensatore tedesco. Vale molto di più di una qualsiasi delle numerose elezioni poiché si propone di sublimare il principio rappresentativo in un «superiore» principio identitario. In fondo redime da ogni peccato e affida le proprie sorti a chi potrà decidere in tua vece. L’acclamazione come forma della politica rappresenta dunque un modo di espiazione e la ricerca di una salvezza per sé e per la comunità. In tal modo però si modificano anche le basi della democrazia reale. Schmitt ne è consapevole. E noi?

La lettura in chiave schmittiana di quanto è avvenuto l’altro giorno forse drammatizza il quadro, ma non è una forzatura. Come interpretare altrimenti la reazione gioiosa dei nostri parlamentari che hanno ascoltato il più duro discorso pronunciato da un presidente della Repubblica contro le inadempienze del sistema dei partiti, le mancanze e le impotenze di un sistema parlamentare non in grado di giungere ad alcuna decisione, se non come un atto liberatorio: siamo colpevoli, ma finalmente è arrivato chi si sobbarcherà il compito e salverà le nostre anime. Una rotta del sistema parlamentare, una resa dei soggetti politici che si affidano al solo potere in grado di governare. Governare anche per loro.

Il più consapevole della gravità del momento è apparso Napolitano, il quale sin dall’inizio del suo discorso ha sottolineato lo stato d’eccezione nel quale è precipitato il paese. Le espressioni usate sono state aspre e alcuni passaggi sono andati ben oltre la fisiologica funzione di «stimolo» che è propria del potere presidenziale. Toni del tutto inusuali per un discorso di insediamento, resi possibili non tanto dalla sicura legalità di un’elezione che ha visto un’amplissima maggioranza conferire un mandato pieno al nuovo/vecchio presidente, ma dal modo in cui a tale elezione si è giunti, che ha assegnato un surplus di legittimazione.

Ora Napolitano è l’unico attore politico in campo, gli alti sono comprimari. Il partito che esprime il maggior numero di parlamentari non è in grado di manifestare una volontà unitaria, le altre forze non hanno legittimazione per governare contro la maggioranza – assoluta alla camera, relativa al senato – frantumata. E allora non rimane che farsi governare dal programma del presidente democraticamente eletto. Gli applausi questo mandano a dire.

Può reggere a lungo in una tale situazione un sistema democratico? In epoca romana in una situazione di eccezionale pericolo per la res publica si assommavano tutti i poteri in capo ad un dictator, al quale però si assegnava un limite di tempo inderogabile (sei mesi), ben sapendo che quando una situazione di emergenza costituzionale si protrae, la degenerazione del sistema diventa inevitabile. I senatori dell’antica Roma erano coscienti che ad essi non era consentito rinunciare al loro ruolo di governo del popolo in nessun momento della pur travagliata vita della Repubblica. I nostri parlamentari hanno questa consapevolezza? E come pensano di riaffermare le propria responsabilità per la salvezza della democrazia parlamentare il Italia?