Sarebbe già domani, al massimo dopodomani, lo scioglimento delle camere. Domani Paolo Gentiloni affronterà la sua seconda conferenza di fine anno di fronte alla stampa. La prima fu il 29 dicembre 2016. L’allora neopremier diede una mirabile prova di pattinaggio sulle domande: ne ascoltò 35, un record per questi riti, la maggior parte delle risposte furono garbati rifiuti o equilibrismi, «lei mi vuole portare troppo avanti», «vedremo», reintroducendo la sapienza elusiva primo dc al posto dei recenti Renzishow con slide e gufi nei panni dei detrattori (oggi sembra lunare ma prima è successo pure questo).

PER GENTILONI NON SARÀ meno impegnativa la prova dialettica di domani. Il suo governo si conclude con l’amaro accantonamento sine die dello ius soli promesso dal suo esecutivo e da quello precedente di Matteo Renzi. Lui, il premier uscente, ha dinanzi a sé la prospettiva di restare in carica per gli affari correnti un periodo non breve, oltre lo scoccare della prossima legislatura, vista la probabile assenza di una nuova maggioranza di governo.

PER QUESTO MATTARELLA avrebbe deciso di lasciare la scena a lui, personaggio chiave del futuro prossimo, e procedere allo scioglimento delle camere solo in serata o il giorno dopo, invitando per un parere al Colle i presidenti Grasso e Boldrini. A seguire sarà convocato il consiglio dei ministri per la data delle elezioni (si parla da giorni del 4 marzo). Poi Gentiloni, insieme la ministro dell’interno, salirà al Colle per firmare il decreto di indizione, con il quale verrà fissata la data della seduta inaugurale del nuovo parlamento, non oltre il ventesimo giorno dal voto (dovrebbe essere il 23 marzo ’18).

MA «LA CONCLUSIONE ORDINATA della legislatura» che il premier considera «non solo un’esigenza del governo ma un dovere verso le famiglie e le imprese» è solo apparente. È questa malintesa idea di «ordine» che emerge dalle pieghe della manovra dove affiorano mance elettorali per assicurare una maggioranza pur che sia, come è il caso dei tre milioni devoluti alla società «IsiameD» che dovrebbe digitalizzare il made in Italy, e che gli stessi senatori del Pd chiamano «marchetta per Ala».

COSÌ COME È TUTT’ALTRO che ordinato lo svolgimento della raccolta delle firme per le pochissime liste che dovranno farlo per partecipare al voto. La denuncia ormai è quotidiana da parte dei Radicali italiani e della lista «+Europa» che si trova in una situazione paradossale. La raccolta delle firme sui collegi uninominali deve essere fatta entro il 29 gennaio, ma la legge stabilisce che gli apparentamenti per quei collegi vengano presentati il 20 gennaio. E verosimilmente i nomi – li deciderà il Pd – non arriveranno prima di quella data, sempreché il voto si svolga davvero il 4 marzo. Quindi «dopo gli appelli a Mattarella e a Gentiloni, non avendo ricevuto alcun chiarimento, a oggi siamo costretti ad andare da soli», annuncia Riccardo Magi. Dal Pd la denuncia viene derubricata a mera tattica per alzare la posta (cinque collegi contro i tre offerti, spiegano, i radicali negano). E si dà per scontato che sarà il Pd a «dare una mano» nella raccolta veloce di 375 firme in ciascuno dei 63 collegi. Ma anche questa potrebbe non essere una soluzione ottimale: una raccolta meno che trasparente non sarebbe un buon viatico per i radicali di Bonino, sottoposti anche al tiro del compagni pannelliani contrari alla presentazione della lista. Il Pd fa spallucce, preoccupato piuttosto dei sondaggi che riducono drasticamente i seggi sicuri: difficile concederli a alleati che «non andranno oltre l’1 per cento», come spiega un alto dirigente del Nazareno.

LE STESSE SPALLUCCE che del resto ha fatto il Pd davanti a tutte le questioni poste dalle liste desiderose di apparentamento, nel post-rottura con Pisapia. Che infatti, abbandonate alla propria approssimazione, sono già un mezzo flop anche prima di presentarsi al voto: la lista «di sinistra» ha dovuto sbianchettare dal logo arlecchino il ramoscello dell’Ulivo per evitare strascichi giudiziari (sono rimaste quattro foglioline che navigano alla deriva nel vuoto). Quella dei centristi sta ancora ai minuetti cortesi, come ieri ha lasciato capire Fabrizio Cicchitto (Ap): «Beatrice Lorenzin può essere un positivo punto di riferimento per tutti coloro che contrastano una deriva populista e razzista ma che nel contempo sono distinti dal Pd».