Sei morti e 70 casi accertati: il colera è arrivato alle porte di Baghdad, a smascherare le colpe della classe politica nata dalle ceneri del governo Saddam e da 8 anni di occupazione statunitense.

Sabato il premier al-Abadi ha ordinato misure immediate per frenare il contagio, dopo l’accertamento di 70 casi di colera ad Abu Ghraib, 25 km dalla capitale. Non è la prima volta che il paese viene colpita dalla piaga: nel 2012 i casi diagnosticati furono 300, tra Kirkuk e il Kurdistan iracheno; nel 2007 4mila casi e 24 morti.

Le misure governative sono palliativi: controlli quotidiani sulla qualità dell’acqua che, contaminata, provoca l’espansione dell’infezione; installazione di stazioni di purificazione dell’acqua ad Abu Ghraib; distribuzione di acqua potabile in bottiglia a migliaia di famiglie, molte rifugiate, arrivate dopo la fuga dalle regioni occidentali del paese, oggi sotto lo Stato Islamico.

Sono palliativi perché non affrontano il problema a monte. Perché si diffonde il colera? Perché le infrastrutture essenziali, a partire dalla rete idrica, non sono mai state ricostruite dopo l’invasione Usa e la caduta del raìs. Stesso dicasi per la linea elettrica: negli ultimi anni 17mila imprese di piccole e medie dimensioni hanno chiuso i battenti a causa dei continui blackout. I milioni di dollari piovuti sul paese e destinati al business profittevole della ricostruzione, spesso gestita da compagnie private straniere, sembrano essersi volatilizzati. Risucchiati nella macchina della corruzione, la stessa contro la quale da due mesi scendono in piazza gli iracheni delle città centrali e meridionali, Baghdad, Bassora, Nafaj, Karbala. E il numero di comunità coinvolte continua ad allargarsi: Wait, Babilonia, Qadidsia, Muthana, Dhi Qar, Maysan.

Al neonato e variegato movimento di base, che ospita semplici cittadini, liberali, comunisti, religiosi, il governo non sa rispondere: dopo aver tentato di disperdere le prime proteste, a luglio, mandando la polizia e uccidendo un manifestante, Muntadhar Al-Halfi, il governo ha lanciato un pacchetto di riforme per frenare la corruzione dilagante, accompagnata da una più generale incompetenza figlia del clientelismo e delle distribuzioni di potere in chiave settaria. Ma il problema è molto più radicato: la “cultura” della corruzione è tanto pervasiva da travolgere ogni settore pubblico e privato, riducendo al lumicino i fondi per la ricostruzione. Inoltre le riforme non toccano la divisione dei poteri secondo linee settarie, etniche e religiose, imposte dall’occupazione Usa e ancora oggi caposaldo del sistema istituzionale iracheno.

Nonostante le previsioni rosee sulla vendita di greggio per il 2016 che dovrebbe permettere di incassare 60 miliardi di dollari in più, il buco di bilancio è così ampio da non far ben sperare. A mantenere l’attenzione su una questione centrale per un Iraq devastato dall’offensiva Isis ci pensano i giovani. Mentre diventa virale la canzone di un gruppo rap di Bassora, gli Ssk, presentata ad una manifestazione a sud e diretta accusa al nepotismo che strangola il paese, la scorsa settimana 50 manifestanti hanno camminato per 350 km, da sud al cuore di Baghdad, la Zona Verde, con in mano una lettera diretta al premier: ascolta le richieste della piazza.

Ora a ricordare al governo le conseguenze di un decennio di settarismi, incompetenza, clientelismo, arriva anche il colera. Come non fosse bastato il collasso dell’esercito di fronte all’avanzata dell’Isis. La rabbia della popolazione cresce: alle proteste partecipano migliaia di persone, per lo più giovani. Ma tra le loro file ci sono tante donne, la società civile, i sindacati. Agli studenti si stanno aggiungendo gli operai e i settori più poveri della popolazione. A cui un governo incapace di reagire risponde con la repressione: aumentano gli attacchi contro i manifestanti e le minacce ad attivisti e giornalisti indipendenti.