Gran premio della giuria a Berlino lo scorso anno, El Club esce nelle sale a raccontare il drammatico caso dei preti pedofili in contemporanea con Spotlight dove una serrata inchiesta giornalistica del Boston Globe scova i colpevoli nascosti, mostrandoli come personaggi per lo più disturbati e un po’ spaesati nelle cose di questo mondo, mandati a prendere aria nuova a Santa Maria Maggiore a Roma. Pablo Larrain rinchiude i suoi preti in un «Club», una casa isolata sulla riva dell’oceano Pacifico, nel sud del Cile. Due film tra i più belli di quest’anno: tanto quello di Tom McCarthy sprizza energia nel suo obiettivo di incastrare lo scandalo che si vuole tenere nascosto, quanto Larrain entra nei più profondi e nascosti territori dell’animo umano così come piuttosto inaccessibile è il luogo dove ambienta il suo film su pentimento, ruolo di vittime e carnefici, espiazione, omertà.

Il regista si è confrontato nei suoi film con tutte le tematiche considerate tabù nel suo paese, perfino i risultati dell’autopsia di Salvador Allende (in Post mortem del 2010) e con Alfredo Castro, grandissimo interprete, ha dato un volto alle più tenebrose ossessioni e cattiva coscienza, violenza repressa ed esibita. Alfredo Castro qui incarna l’incoffessabile. Nella sua interpretazione si espande all’infinito questa condizione, tocca sfere limitrofe, dolorose non solo per un pubblico cileno che di impunità ha larga consuetudine, ma ne fa un tema universale, una profonda riflessione su pedofilia e silenzio della chiesa.

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Larrain prende spunto ancora una volta da un fatto di cronaca del suo paese emerso con clamore sulla stampa e la televisione dopo le accuse al vescovo Karadima, sospeso dal servizio e poi moltiplica la tematica alle figure più diverse, ai differenti strati sociali, ai gradi diversi delle gerarchie ecclesiastiche (in filigrana non si può fare a meno di sentire la presenza di papa Francesco nel difficile confronto con la curia). Nel film i protagonisti sono preti di piccolo cabotaggio, vivono a La Boca, villaggio sull’oceano senza poter più esercitare le funzioni religiose, in una casa adibita alla loro accoglienza, accuditi da una suora che funge da «carceriera» (Antonia Zegers sarà interprete del prossimo film di Larrain, Neruda, con Gael Garcia Bernal).

Si tratta di un piccolo club ben organizzato, regolato in modo preciso come fosse un nuovo ordine monacale (divieto di parlare con gli estranei, orari regolati dalle preghiere), ma l’indizio che i preti sotto accusa sono arrivati al punto più basso di una scala discendente è dato già dalle prime scene dal fatto che la loro principale attività consiste nello scommettere alle corse dei cani, in possesso come sono di un autentico campione. Il perfetto funzionamento del «club» verrà messo pesantemente in discussione da personaggi che appaiono improvvisamente sulla scena, un altro prete da accogliere, un povero campesino abusato fin da piccolo, un padre inviato dal Vaticano con intenti inquisitori.

Un microcosmo che allude alla società intera e si allarga sempre di più portando i protagonisti, consapevoli o no, a rendere conto dei propri delitti. «La Chiesa, ci diceva Larrain, crede che i propri peccati vadano confessati a Dio, noi pensiamo che vadano portati in tribunale, mi aspetto una confessione pubblica». E in questa affermazione si uniscono nell’immaginario anche i delitti perpretrati da torturatori ed ex militari nel paese, che non basta cancellare con la pacificazione, il colpo di spugna o l’amnistia.

È universale l’intento del film, ma il microcosmo dei preti rinchiusi nella casa mette in evidenza alcune caratteristiche di prototipi di uomini cileni (e a interpretarli sono grandissimi attori): il militare che ha sempre qualche arma a portata di mano, il machista decisionista, il viejo loco (il vecchio fuori di testa) che neanche più ricorda chi era stato e cosa aveva fatto.

Perfino la suora evoca alcune caratteristiche della donna cilena sempre sorridente ma dall’inaspettata ferocia. Qui con determinazione è capace di uccidere per ottenere il suo scopo.Alfredo Castro, padre Vidal, è l’unico che parla di desiderio: («puoi reprimere ogni cosa ma non il desiderio»), lui stesso si definisce ’il re della repressione’. Il personaggio di Sandokan (Roberto Farias), il povero cristo che proclama a voce alta gli abusi subiti da bambino in tutti i particolari, quasi voce che grida nel deserto, innalza le sue preghiere con lo stesso fervore, mentre le orazioni dei sacerdoti procedono solo a scandire il tempo (una regola tra le altre).

Quella voce chiama in causa qualcuno che abita tra quelle mura, non basta l’isolamento a tenere lontani i peccati, ma neanche l’inquisitore mandato a chiudere quel rifugio potrà far chiarezza. Si torna all’incipit del film, dove le parole della Genesi sulla separazione della luce dalle tenebre indicano la possibilità per l’uomo di distinguere il bene dal male. Nel Club non c’è redenzione, un male uniforme invade tutta la superficie del film, sono tenebre che non si riescono a dissolvere. Larrain è un esigente agitatore di coscienze, un maestro della resa dei conti, un grande narratore del male.