Nel concorso Cineasti del presente del festival svizzero che si è appena concluso ha trovato spazio Moj brate – Mio fratello di Nazareno Manuel Nicoletti. E per darne conto vale la pena cominciare dalla fine del film, da una frase di Antonioni nei titoli di coda:«Esiste una teoria secondo cui l’uomo vive in uno stato di equilibrio instabile, che con gli anni diventa sempre più stabile, finché raggiunge l’equilibrio, cioè la morte». La frase di un maestro che va a suggellare il lavoro di un allievo, perché Nicoletti ha realizzato questo film nell’ambito del corso «Reportage cinematografico» a L’Aquila per il Centro sperimentale di cinematografia. Budget di 5mila euro per raccontare una vicenda amara e inquieta nel suo «equilibrio antonioniano», quella di Alberto Musacchio, clown, attore, antropologo e archeologo, morto suicida in Canada qualche anno fa.
A condurre la ricerca è Stefano Gabrini, regista, docente e soprattutto amico di Alberto. È lui a proporgli di passare dalle clownerie di piazza Navona il giorno dell’Epifania, all’animazione teatrale a Mostar, nella città devastata dalla guerra. Insieme e con Hamica Nametak, ascoltano storie terribili vissute dai loro giovanissimi amici, ma riescono anche a fare affiorare qualche sorriso e un po’ di speranza in una città che prima dell’orrore aveva sette teatri, dopo aveva solo un cimitero sconfinato alimentato prima dai serbi, poi dai croati e dai bosgnacchi. Un’esperienza che segna chi l’ha vissuta e chi ha cercato di portare lì la propria solidarietà concreta. Diceva Alberto: «Da grande voglio imparare a fare l’angelo per stare sempre vicino ai miei cari». Solo che poi gli angeli perdono le ali e crollano.
Nicoletti non prende scorciatoie, riprende, cura gli effetti, monta, cura il suono e il colore del suo film, utilizza l’obiettivo e sembra lo faccia respirare, come fosse un essere umano, vivente, tra gli altri, piazza la telecamera anche in testa alla sua guida, così che i piedi sembrano un’entità lontana, quasi appartengano a un’altra persona, si mescolano e si sovrappongono immagini, lingue, ricordi e silenzi che esplodono nell’unico modo possibile: l’urlo.
Siamo nell’ambito delle emozioni, non delle spiegazioni. Non sapremo mai perché Alberto abbia deciso così (eccesso di sensibilità?) e come suo fratello ritrovato dopo anni, Marco, forse molti hanno impiegato anni a perdonarlo. Lui invece ora dovrebbe essere sereno, le sue ceneri stanno presso un albero in Canada, un luogo che amava, e una parte in un vaso sempre presso una pianta a lui cara a Roma, dopo una vita in equilibrio instabile, anche perché non è facile correre con il monociclo, e Alberto aveva saggiamente declinato di attraversare il ponte a Mostar quando era una passatoia tremolante dopo la distruzione e prima della ricostruzione.

 

 

Moj Brate non ha avuto premi, ma già la selezione a un festival importante lo è. E a Venezia andrà un altro saggio di diploma del corso di reportage dell’Aquila, Zac i fiori del male di Massimo Denaro. Ottimi risultati che hanno ottenuto come un boomerang la chiusura del corso stesso.