A bocce ferme, conviene ragionare. La sentenza della Corte d’appello di Milano che ha assolto Silvio Berlusconi dai reati di concussione e prostituzione minorile non è un fulmine a ciel sereno ma la cartina di tornasole dei cambiamenti in atto nella giurisdizione. Il dibattimento d’appello e le formule assolutorie utilizzate non lasciano dubbi. Secondo i giudici milanesi ad essere in discussione non sono i rapporti sessuali a pagamento di Berlusconi con la diciassettenne El Mahroug Karima detta Ruby.

E’ in discussione la prova che l’anziano ex cavaliere fosse consapevole della minore età della sua giovane favorita. Ancora, il ribaltamento della decisione di primo grado non si fonda su una diversa ricostruzione dell’intervento dell’allora premier sulla Questura di Milano per ottenere che Ruby, trattenuta per un furto, fosse (illegalmente) rilasciata ma sulla ritenuta irrilevanza penale di tale intervento. Le spiegazioni dei media si sprecano e molti sostenitori della giurisdizione a prescindere considerano la decisione assolutoria una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado). Come sempre le ragioni di una decisione sono molte ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative ma nelle scelte dei giudici.

I giudizi di fatto sono sempre opinabili ma sostenere che qualcuno (pour cause Silvio Berlusconi) chieda il rilascio di una ragazza trattenuta in questura perché minorenne ignorandone (e avendone ignorato nei precedenti mesi di intima frequentazione) la minore età è cosa a dir poco ardita (tanto quanto l’affidavit rilasciato dalla maggioranza parlamentare sulla parentela dell’intraprendente fanciulla con l’allora presidente egiziano Mubarak). Egualmente opinabili sono le opzioni in diritto, ma è davvero spericolato sostenere che la richiesta del presidente del Consiglio, fatta con una telefonata notturna a casa del responsabile della Questura, di liberare (illegittimamente e contro l’indicazione del magistrato minorile) l’avvenente Ruby vada interpretata come un paterno suggerimento inidoneo a condizionare il funzionario richiesto (attivatosi in una sequenza ininterrotta di telefonate dirette ad accontentare l’autorevole interlocutore solo per intima convinzione…). È come dire che la costrizione, elemento costitutivo del delitto di concussione, esiste solo in caso di minaccia grave ed esplicita (magari con armi): cioè mai, ché non sono certo queste le intimidazioni usate dai pubblici ufficiali.
Eppure così è stato deciso dalla Corte di appello di Milano. Con una disinvoltura che richiama casi analoghi: come quello dell’ex ministro Claudio Scajola, accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto «a sua insaputa», o quello dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, processato per avere indotto il questore di Genova a rendere false dichiarazioni sulla effettiva catena di comando della polizia in occasione dell’irruzione alla scuola Diaz nel luglio 2001 e assolto, in sede di legittimità, con la singolare motivazione che, in ogni caso, la deposizione del dr. Colucci era «priva di ogni profilo di seria pertinenza con i fatti reato integranti la regiudicanda del processo Diaz».
Decisioni – tutte – assunte da giudici irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza. Secondo un copione antico nel quale anche le peggiori sentenze di regime sono state per lo più pronunciate da giudici “per bene”. Il problema va, dunque, affrontato per quel che è senza ricorrere a spiegazioni consolatorie.

Lo dico in maniera brutale. La giurisdizione comporta sempre e necessariamente ampi margini di discrezionalità nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti e diverse possibilità interpretative delle norme (più o meno attendibili e tuttavia, spesso, egualmente possibili). E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui i giudici operano. Di più, i giudici sono tradizionalmente stati i garanti dello status quo: forti con i deboli e deboli con i forti. Orbene, negli ultimi decenni del secolo scorso, era accaduto in Italia un fatto inedito, in forza della Costituzione e dell’impegno di una generazione di giuristi (di cui è stata parte Magistratura democratica): l’uscita della giurisdizione dall’orbita (culturale prima che istituzionale) del potere e la tendenziale realizzazione del principio della uguaglianza di tutti (forti e deboli) di fronte alla legge.

La sentenza della Corte di appello di Milano è uno dei segnali che il quadro è mutato e che una fase si sta chiudendo (pur in presenza di punti significativi di resistenza). Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” è sacrilegio, là è regola; qui la custodia cautelare in carcere è, a ragione, l’extrema ratio, là – come scritto in una recente ordinanza torinese – è «il presidio minimo per evitare la commissione di nuovi reati»; qui si mette in discussione, per mancanza di tipicità e non senza motivo, il cosiddetto concorso esterno, là si dilatano a dismisura le fattispecie incriminatrici fino a evocare il terrorismo in fatti di “ordinaria” violenza.
Di questo occorre discutere se non ci si vuole limitare ad aspettare la prossima sentenza sorprendente.