«Siamo pronti al negoziato intra-afghano». Il 23 luglio il portavoce dell’ufficio politico talebano a Doha, Suhail Shaheen, ha annunciato via Twitter che il movimento è «pronto a iniziare i negoziati intra-afghani immediatamente dopo» la festività religiosa dell’Eid al-Adha, che si concluderà il 3 agosto.

È la prima volta che i Talebani si dicono così apertamente pronti al dialogo con i rappresentanti del governo di Kabul e che viene resa nota una nuova data dopo quella del 10 marzo, disattesa. Secondo l’accordo firmato a Doha, in Qatar, il 29 febbraio 2020 dall’inviato speciale Usa, Zalmay Khalilzad, e da mullah Baradar, l’uomo della vecchia guardia a capo della delegazione degli studenti coranici, i negoziati intra-afghani avrebbero dovuto cominciare entro il 10 marzo.

MA IL GOVERNO DI KABUL e i Talebani hanno a lungo discusso su uno degli elementi dell’accordo: lo scambio di prigionieri. Il presidente Ashraf Ghani ne ha contestato a lungo i termini e solo l’11 marzo 2020, due giorni dopo la cerimonia di inaugurazione del suo secondo, contestato mandato presidenziale, ha firmato un decreto autorizzando il rilascio dei primi Talebani, i quali hanno poi liberato diversi detenuti “governativi”. Finora il governo ha rilasciato 4.400 Talebani sui 5mila previsti, mentre gli studenti coranici 864 sui mille detenuti governativi previsti.

Quello che nei piani degli americani era uno strumento per costruire fiducia reciproca è diventato un ostacolo ulteriore, fonte di dissapori e contrasti. E continua a esserlo: il 23 luglio il portavoce talebano ha detto sì di essere pronto al negoziato, ma a condizione che il governo rilasci i restanti 600 detenuti circa indicati nella lista fornita al “nemico”.

Kabul ha già detto più volte di non voler cedere e chiede una lista alternativa: si tratterebbe di militanti pericolosi, pronti a tornare sul campo di battaglia, responsabili di attentati sanguinosi a Kabul. Gli studenti coranici si mostrano intransigenti: la lista è quella e va rispettata.

Un circolo vizioso che alimenta la spirale del conflitto, la cui violenza è cresciuta negli ultimi giorni: i Talebani usano la leva militare per convincere Kabul a cedere, il governo non rilascia i detenuti accusando i militanti di eccessiva violenza.

SULLA VIOLENZA dei Talebani si interrogano anche gli americani che una settimana fa, trascorsi i 135 giorni stipulati dall’accordo, hanno rivendicato di aver rispettato i patti di Doha: soldati ridotti da 13.mila a 8.600 circa e ritiro completo da cinque basi militari, consegnate a Kabul. Mentre i Talebani non avrebbero ridotto la violenza come ci si aspettava e come denunciato – con toni piuttosto blandi, simili a quelli del segretario di Stato Usa Mike Pompeo – anche dall’inviato speciale Khalilzad.

Il punto è che l’accordo di Doha non prevede l’impegno dei Talebani a ridurre gli attacchi contro le forze governative. Così, finora hanno evitato con cura di colpire le forze straniere e gli americani (che hanno ripreso alcuni bombardamenti), ma continuano a indebolire l’esercito afghano.

PER RISOLVERE L’IMPASSE c’è chi, come Roland Kobia, l’inviato dell’Unione europea per l’Afghanistan, suggerisce che il negoziato inizi ora e che le questioni irrisolte dei prigionieri rimanenti e del cessate il fuoco siano le prime dell’agenda negoziale.

Ma a dispetto della crescenti pressioni degli americani i Talebani sembrano voler tenere il punto. E potrebbero incassare un’altra significativa vittoria diplomatica e simbolica: prima il rilascio di tutti i detenuti, poi il negoziato con Kabul, con un fronte governativo ancora diviso.