Tra virus, web e capitale, oggi la filosofia ha prevalentemente un tono perdente. Alla fine del Settecento, riferendosi all’esaltazione e alle pretese del nascente idealismo, Kant parlava invece di toni da gran signore, e due secoli dopo Derrida rilanciava la posta censurando il tono apocalittico che sembrava dominare la filosofia. Tre forze che in ultima istanza rimandano tutte a un meccanismo di controllo e di sfruttamento, congiurando contro l’umanità che – si direbbe – aspetta il colpo di grazia come un agnello sacrificale: il combinato disposto dei tre sembrerebbe dunque invincibile e (come diceva la buonanima di Heidegger) orma solo un Dio ci può salvare.

Ai tempi nostri, è ovviamente a proposito del virus che il vittimismo si scatena con più forza, non solo perché fa paura ma soprattutto perché non si hanno troppe idee sul come combatterlo. E lo scenario si allarga verso il web e il capitale, di cui il virus sarebbe l’agente provocatore o il collaboratore strategico: hanno costruito il virus per tenerci chiusi in casa e farci lavorare di più sulle piattaforme, dunque per far fiorire il capitale, dicono alcuni; e così parlando disegnano una umanità schiacciata, impotente, e francamente anche un po’ stupida, che sarebbe vittima delle menzogne del capitale, condizionata segretamente dal web (quasi che prima non lo fosse da chiese, partiti, e quel che è peggio amici e parenti), ricattata dal virus e dai suoi burattinai occulti, il tutto sotto una cappa di politicamente corretto e censura preventiva, che confina i dissidenti in una Siberia immaginaria.

Da Edgar A. Poe in avanti
In questo quadro desolante, che fa convergere nel vittimismo destra e sinistra (ci sono momenti in cui Giorgia Meloni sembra Žižek e viceversa), una luce di speranza nell’intelligenza umana viene dal libro di Antonio Casilli Schiavi del click (pp. 320, € 19,00, infelicissima traduzione dell’originale francese En attendant les robots). Sociologo del lavoro in rete con solide basi filosofiche, Casilli compie un’opera di illuminismo mettendo in guardia contro i paragoni fuori luogo tra lo sfruttamento attuale e quello di una volta: smettiamola di parlare di minatori del web, dice, di colonialismo digitale, e di nuova schiavitù (di qui l’infedeltà profonda del titolo italiano).

Guardiamo piuttosto alla realtà effettuale, che ha un volto meno grandguignolesco e semmai duro come lo è sempre il reale. L’automazione non è il destino manifesto del progresso tecnologico e, proprio come nel giocatore a scacchi di Maelzel messo in copertina e di cui ci parla Poe in una sua famosa novella tratta da una storia vera, l’automa non libera gli umani dal lavoro, ma li fa lavorare più di prima, a volte in posture persino più scomode e squalificate.

Nel racconto di Poe, il giocatore umano è acquattato in un cassone per far credere che un turco meccanico, manovrato dall’umano, sia capace di giocare a scacchi. In quello di Casilli, l’apparente automazione è un mostro delicato che spolpa garbatamente gli umani nelle tre forme del lavoro on demand (Uber e simili), dei microlavori (in cui, proprio come nel Turco Meccanico di Poe, gli umani sono chiamati a sopperire per due soldi alle insufficienze dell’automazione) e nel lavoro sociale in rete (quello che ognuno di noi compie quando, interagendo sul web, fornisce dati e metadati alle piattaforme). C’è da dire, però: se davvero l’automazione totale fosse una favola che ci raccontiamo (o peggio ancora che altri ci raccontano e che noi, stupidi, crediamo) per rendere sopportabile lo sfruttamento umano, allora l’emblema del Turco Meccanico sarebbe mal scelto.

Il gioco degli scacchi è uno dei campi in cui più facilmente si è sviluppata l’automazione, e chi insegna le regole di gioco al computer non è rappresentabile come chi si trova schiacciato in una scatola. Inoltre, e come è evidente, l’automazione totale non è un «destino manifesto» guidato da chissà quale distopia, ma la banale conseguenza del fatto, cinico e dunque inoppugnabile, che una macchina non muore, non ha fame, non ha diritti, dunque sostituirla agli umani è conveniente, basta capire come farlo: sotto questo profilo, il lavoro sociale in rete è di gran lunga il più utile, perché fornisce i fondamenti di quella mimesi delle forme di vita e delle azioni umane che è l’automazione.

Inoltre: concepire gli umani come schiavi del click è nasconderne le enormi potenzialità, porre le basi per una servitù volontaria. Il virus non andrebbe da nessuna parte, se non avesse degli umani che lo portano con sé. Ma anche il web non esisterebbe senza umani, né le macchine, e le piattaforme non avrebbero senso se non ci fossero umani che le animano.

Il caso della Cina
Concentrarsi sulla parcellizzazione e la frammentazione della nostra servitù volontaria è distogliere lo sguardo dal vero sfruttamento. Quello tra utenti e piattaforme non è uno scambio alla pari in cui i primi danno gratis informazioni e ricevono gratis servizi. I dati che le piattaforme ricevono da un utente possono essere confrontati con strumenti di calcolo che non possediamo, generando profilazioni e automazioni a noi inaccessibili (e, aggiungo, ingestibili da un utente generico); possono essere venduti, inoltre, come qualunque altro bene. Una nuova forma di welfare potrebbe consistere semplicemente nella ridistribuzione del plusvalore prodotto dagli utenti a favore delle piattaforme, con vantaggio tanto delle piattaforme quanto degli utenti, che vedrebbero riconosciuto il loro lavoro. E aggirerebbe lo scoglio della retribuzione degli utenti, che non avrebbe senso remunerare poco se si prendesse atto del fatto che il vero guadagno sta nella aggregazione, ed è su quello che si deve intervenire.

Bene sarebbe addestrarsi a non scrutare l’altra parte della collina, come diceva il Duca di Wellington, bensì guardare al futuro mettendosi nella posizione dei possibili vincitori e non degli eterni sconfitti da un capitale napoleonico. Per farlo, conviene innanzitutto guardare un po’ fuori dai nostri confini, in particolare in Cina, il cui caso è un problema concettuale oltre che politico del quale il libro di Casilli dice troppo poco. Con una rapidità degna di miglior causa, abbiamo deciso che la Cina è un paese capitalista, ma ovviamente non è così: si professa ed è, invece, un paese comunista, che ha nazionalizzato le piattaforme realizzando quel welfare digitale che in Occidente è ancora non solo impensabile, ma impensato. Basti considerare come la ridistribuzione del plusvalore e la crescita economica hanno fatto sì che – stando al Fondo Monetario Internazionale – in sette anni, dal 2012 al 2019, cioè da quando è in carica Xi Jinping, il numero dei cinesi sotto la soglia della povertà assoluta (325 dollari all’anno) è passato da 115 milioni a 10 milioni.

Rinunciare al vittimismo
Al costo della perdita delle libertà individuali, certo. Da quando in qua, il comunismo si è preoccupato di simili quisquilie? E, tuttavia, perché, mentre ci teniamo stretti le nostre libertà individuali, non impariamo qualcosa dalla socializzazione del plusvalore? Previa rinuncia al vittimismo, naturalmente, e una rinfrescata al nostro sguardo, che sostituisca alla dialettica feudale signoria/servitù, e a quella industriale capitale/lavoratori, la dialettica umani/automi, dove i primi sono destinati a trionfare non perché lavorano (a quello ci penseranno le macchine, ogni giorno più efficienti) ma perché consumano, dando senso a un sistema che altrimenti ne sarebbe privo.