Fino a giugno, il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme ospiterà una fantasmagorica rassegna dedicata ai mostri e alle creature fantastiche nella mitologia antica. Tutti presenti gli incubi dell’uomo classico: dal minotauro alle arpie, passando per la chimera. In catalogo, manca ovviamente il biblico leviatano, simbolo di quello Stato onnipresente, lento e opprimente, denunciato da Thomas Hobbes. Lo scorso mese, un articolo di Giovanni Valentini su Repubblica è parso evocarlo, quel monstrum, a proposito dell’amministrazione pubblica della cultura: sarebbe soprattutto la burocrazia delle soprintendenze ciò che «imbriglia il recupero e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, contribuendo così a congelare la modernizzazione».

Immediata l’alzata di capo degli archeologi, che hanno reagito lanciando un appello attraverso il sito Patrimonio sos. Tra le tante firme, troviamo quella di Rita Paris, consigliere comunale eletta nella Lista Civica Marino Sindaco e responsabile dell’area archeologica del Parco dell’Appia Antica. La incontriamo nel suo ufficio di Palazzo Massimo, sede museale che dirige dal 2005.

Qualcosa non va nelle soprintendenze?

La struttura per la quale lavoriamo deve essere migliorata: noi stessi ne parliamo ormai da anni. Non è tuttavia giusto descrivere le soprintendenze come carrozzoni ottocenteschi. Innanzitutto, sono passate con successo a gestire finanziamenti, anche consistenti, applicando la normativa sui lavori pubblici, estremamente complessa per studiosi costretti a confrontarsi con scavi e restauri alla stregua di opere edili quali viadotti e autostrade. Ci hanno quindi chiesto di informatizzare il nostro patrimonio conoscitivo: l’abbiamo fatto. Allo stesso modo ottemperiamo alla legge 241 sulla trasparenza degli atti: rispettiamo in pieno i tempi, rispondendo sempre all’attenzione pubblica.

Che le soprintendenze siano antiche, questo è un altro discorso. In effetti sono nate ancora prima del ministero, quando erano comprese all’interno della Direzione generale per le antichità e belle arti, dipendente dalla Pubblica istruzione. Da allora, sono le soprintendenze di settore – archeologiche, storico-artistiche, architettoniche e paesaggistiche – gli uffici periferici presenti sul territorio, che presidiano e controllano seguendo le forme di pianificazione elaborate dagli enti locali, dai piani regolatori ai piani territoriali paesistici. Francamente, non riesco a immaginare da quale struttura possano essere sostituite.

Una grande rivoluzione fu, nel 1993, la legge Ronchey sui servizi aggiuntivi: prima custode e bigliettaio erano la stessa persona; adesso biglietteria, bookshop, e punti di ristoro sono gestiti a parte. Le soprintendenze hanno definitivamente rivolto la loro attenzione agli aspetti gestionali e di valorizzazione della funzione pubblica, concentrandosi sulle nuove esigenze didattiche e comunicative. I luoghi della cultura si sono aperti a un mondo diverso, non solo specialistico.

Un luogo comune, tuttavia, insiste nel ribadire che siete troppo autoreferenziali e dovreste aprirvi ancora di più all’esterno.

Per quanto riguarda la ricerca di sponsorizzazioni, non è vero che siamo soltanto conservatori. Anzi, manca poco che facciamo i butta-dentro: quelli che pur di rendere attraenti i nostri musei, pur di avere maggiori visitatori si mostrano disponibili a organizzare tipi di eventi che non hanno molto a che vedere con l’archeologia. Non è il caso di Musei in musica, Una notte al museo, la Settimana della cultura, iniziative che possono attrarre un pubblico diverso che altrimenti non si sarebbe mai accostato all’arte antica. I Rolling Stones, però, sono eccessivi, anche perché il Circo Massimo non ha bisogno di visibilità.

Quali sono, quindi, i limiti e le criticità principali delle soprintendenze?

Abbiamo una serie di figure professionali entrate con una qualifica direttivo-apicale; se non fai un concorso, lì ti fermi. La nostra è una struttura piramidale con un dirigente e diversi direttori che hanno degli incarichi specifici presso monumenti, pezzi di territorio, musei. Una struttura del genere, con tali responsabilità, meriterebbe un riconoscimento diverso. Lo stipendio di un direttore di museo, invece – Uffizi compresi – arriva al massimo a 1800 euro. È un incarico che, come ti viene dato, così ti viene tolto: oggi sei il direttore della Galleria Borghese, domani puoi lavorare altrove. Non hai un’indennità di funzione a fronte della mole di impegni e responsabilità richieste, delle competenze necessarie per gestire rapporti con le istituzioni nazionali e internazionali.

Così non si può continuare a lavorare: se ancora resistiamo, è perché abbiamo introdotto nel lavoro qualcosa che va oltre l’idea di contratto. È proprio la passione, il trasporto, l’enorme senso di responsabilità che ha fatto dimenticare a chi ci governa quanto la nostra considerazione sia inadeguata al ruolo svolto. Tutti lavoriamo normalmente dodici ore al giorno, districandoci tra aspetti gestionali e amministrativi, senza dimenticare la ricerca scientifica: non possiamo smettere di studiare per restare al passo con l’impegno scientifico che gli accademici possono affrontare. Se non studi, non puoi organizzare una mostra né gestire un museo: non hai la possibilità di redarre un catalogo, scrivere le didascalie, organizzare attività didattiche.

Sembrano le stesse richieste degli insegnanti. E se le soprintendenze le abolissero?

L’età media delle sovrintendenze è di 57 anni. In alcune regioni sono state immesse forze giovani; a Roma e nel Lazio no.

Da anni ormai non entra un funzionario nuovo al quale trasmettere la nostra esperienza, giusto per passare la staffetta. Nello Stato non c’è carriera: ci sono degli interni di livelli inferiori che non crescono, altri proprio non entrano. Le dichiarazioni del ministro, finora, da un lato parlano del ricorso a privati, dall’altro di una spending review che sicuramente va operata, ma non certo qui, dove sarebbe quanto meno rischiosa e controproducente. Se si tolgono risorse alle soprintendenze, si impoverisce irrimediabilmente il rapporto dello Stato con i luoghi della cultura sul territorio.

Una delle obiezioni più frequenti sostiene che lo Stato non possa farcela a gestire da solo il nostro patrimonio culturale. Bisognerebbe concede maggiore spazio ai privati?

Davvero non si capisce cosa si intende oggi per privati, perché ci sono sempre stati. Già nel ’94 avevo immaginato una mostra – Dono Hartwig, originali ricongiunti e copie tra Roma e Ann Arbor in Michigan – che riuniva frammenti scultorei del Templum Gentis Flaviae finiti all’inizio del ’900 sul mercato antiquario. L’operazione fu portata avanti grazie al contributo di uno sponsor privato: l’Eni. È fondamentale, tuttavia, sottolineare quello che sembra ovvio: deve essere lo Stato a soprintendere. Ultimamente abbiamo avuto contributi di privati a titolo diverso: nel caso della Piramide Cestia e della Fondazione Packard a Ercolano, si è trattato di erogazioni liberali e di atti di mecenatismo che non hanno chiesto nulla in cambio se non il pubblico riconoscimento e ringraziamento; nel caso del Colosseo, si è andati un po’ oltre. Quello che conta, tuttavia, è il procedimento: i privati versano i soldi nelle casse dello Stato e, quindi, delle soprintendenze; queste, infine, procedono a realizzare i progetti attenendosi rigorosamente alle procedure di legge. Nessun privato può dire direttamente: «io voglio occuparmi dei restauri al Colosseo».

Non pensa che l’opinione pubblica possa faticare a comprendere le vostre ragioni?

Al contrario, penso che a volte i cittadini siano perfino più esigenti di noi, fino a pretendere di più di quello che si possa effettivamente dare. Per esempio, anni fa, un limitato scavo preventivo in occasione della costruzione di un edificio in via Padre Semeria, all’Eur, aveva restituito alcune testimonianze antiche. In seguito, il palazzo non si fece più e lo scavo rimase a lungo in stato di abbandono, finché noi non chiedemmo il rinterro per garantirne la protezione: la migliore forma di conservazione.

I cittadini quasi insorsero. Insomma, da un lato si accusano le soprintendenze di essere da ostacolo al progresso, dall’altro ogni ritrovamento archeologico finisce per scatenare una sorta di orgoglio locale. Se l’Italia assegna all’intero patrimonio culturale della nazione uno 0,19%, è ovvio che il governo e gli amministratori continuino a chiedere con maggiore forza il contributo dei privati. La questione sta tutta qui.