Il circo della Formula uno” è una definizione piuttosto datata e sta a significare il mondo itinerante delle corse automobilistiche al più elevato livello prestazionale. Ma, oltre allo spostarsi da un luogo all’altro, cosa avrebbe a che fare una corsa di macchine sportive con il circo? Una risposta per noi spettatori giunse a Monza, in occasione del gran premio d’Italia 1973. Poco prima della gara lo speaker della manifestazione, da gran maestro cerimoniere, enunciava all’apparecchio altoparlante i nomi dei piloti. Di ciascuno, indugiava a tessere le lodi di guida. Di quelli famosi (ex campioni del mondo e campione in carica) enfatizzava vittorie e titoli. L’effetto, già scontato, era dato dal pubblico in visibilio non appena veniva scandita l’accoppiata di pilota e macchina. Ancor prima di cominciare, la corsa si tramutava in esibizione e i corridori passavano per dei fenomeni: spettacolo da circo, appunto.

Erano ancora gli anni in cui le monoposto della Lotus facevano il vuoto nelle gare e prime guide come Graham Hill o Jackie Stuart, avendo ormai vinto tutto, correvano per tenere lucido il blasone. In quel gran premio, oltre a loro, gareggiavano gli assi del momento impersonati dal brasiliano Emerson Fittipaldi e dallo svedese Ronnie Peterson, e anche gli emergenti che avrebbero battagliato per il titolo mondiale nel prosieguo del decennio ’70: Niki Lauda e James Hunt. I duelli di quei due sulle piste hanno fatto da copione in un film di successo, qualche anno fa.

Ammucchiati sopra una gradinata di rettilineo, non si riusciva a seguire granchè delle fasi di gara. I bolidi che balenavano di sotto, senza avere il tempo di vederli, si percepivano solo dal rombo breve e grave che i loro motori emettevano. A fine corsa, con Peterson che se l’aggiudicò al volante proprio di una Lotus, ci assalì il pensiero di dover ripercorrere trecento chilometri dell’autostrada “Serenissima” per tornare nella città veneta in cui risiedevamo. Si poneva il problema di come uscire con la nostra “Fiat 127” dall’ex parco reale (dove è situato l’autodromo nazionale), delimitato da un muro di 12 chilometri, in concomitanza con tutte le altre auto. Era appena terminato il circo dei piloti eletti che già si preannunciava quello dei guidatori seriali.

Marciando in coda, si aspettava che la macchina capofila indovinasse la porta d’uscita più prossima. Ma imboccando itinerari più volte percorsi, circolavamo intorno intorno su vialetti e viottoli senza venirne fuori. Un esercito di lamiere che si muoveva, incrociandosi, come torme di formiche smarrite, in un parco chiuso e magari da tutelare. Auto che calpestavano tracciati di terreno contornati da vegetazione e alberi d’alto fusto, scaricando fumi di sudiciume sul secolare ecosistema. Fu proprio lì, in quel circolo vizioso causato da lacune organizzative o nostra imperizia di guida, e su cui già si allungavano le ombre della sera, che scoccò la scintilla: ponevamo attenzione alle condizioni ambientali; a quello spazio fisico-biologico che d’un tratto, per la prima volta, ci parve in pericolo. E noi con esso, che ventenni o poco più, perdemmo la bussola (se mai l’avessimo, allora) nel vorticoso circo della Formula uno.