«Il giorno di ferragosto molti di noi si sono svegliati come se fosse un giorno qualsiasi. E invece una intera generazione di afghani, un paese in cui il 70% della popolazione ha meno di 30 anni, hanno dovuto scegliere di lasciare tutto, all’improvviso». A parlare è Sahraa Karimi, regista afghana 38enne. Cineasti sotto minaccia e, in generale, artisti afghani ai quali sono attualmente negati corridoi umanitari e la garanzia della concessione di status di rifugiati politici, oltre che la preoccupazione per il loro futuro e la necessità di provvedere alla loro sistemazione una volta giunti in Europa: la Biennale ha deciso di organizzare un incontro al Palazzo del Casinò, ieri, nel corso della quarta giornata della Mostra del cinema, per parlare di questo.

KARIMI, prima presidente donna dell’Afghan Film Organisation e autrice di una recente lettera aperta per sensibilizzare i media, i governi e le organizzazioni umanitarie mondiali sulle condizioni del suo paese, già ospite della Mostra del Cinema nel 2019, ha riproposto l’appello di agosto a non abbandonare gli afghani: l’incontro comincia da qui. Karimi ha sottolineato come il disastro talebano abbia interrotto attività di produzione e diffusione cinematografica in tutte le direzioni: «Produzioni indipendenti di giovani filmmaker hanno dovuto abbandonare il paese senza poter raccogliere neanche il proprio materiale; parliamo di ragazzi che offrono prospettive preziose sul nostro paese, che arricchiscono il nostro bagaglio di consapevolezza; attività di scuole di cinema e workshop, produzioni di documentari e film che avrebbero raggiunto i festival di tutto il mondo. Tutto questo si è interrotto. Stop. Cancellato, come se non fosse mai esistito. E ora c’è un paese senza artisti e senza cineasti. Provate a immaginare un paese senza una cultura e senza una identità. Quello che chiedo qui e ora – ha concluso Karimi – non è supporto economico ma intellettuale. Non dimenticatevi di ciò che succede ora. Parlatene».

Giuliano Battiston, che ha moderato l’incontro, ha ricordato: «Non tutti i lavoratori del cinema che volevano lasciare il paese ci sono riusciti. E le minacce agli operatori dello spettacolo non sono nuove, anzi vanno avanti da ben prima della recente riconquista del potere da parte dei talebani».

SAHRA MANI, regista e produttrice di Kabul Melody, di prossima uscita, è intervenuta facendo un passo indietro a prima dell’offensiva talebana: «Non è mai stato semplice lavorare in Afghanistan. Il nostro era un sistema marcio, corrotto. Spesso ci siamo trovati senza corrente elettrica e senza internet, per non parlare dei bombardamenti. Ma molti di noi hanno scelto allora di restare, di avere fiducia nel futuro del nostro paese. Ora ci rendiamo conto di essere stati ingenui: il nostro governo è responsabile di quanto successo, non ho dubbi su questo. Ai talebani è stata lasciata ampia agibilità politica, non solo da noi ma anche da parte di altri paesi».

Vanja Kaludjercic, membro, con Orwa Nyrabia e Mike Downey, anche loro presenti all’incontro, dell’International Coalition for Filmmakers at Risk, è intervenuta per sollecitare la comunità internazionale del cinema a offrire sostegno attraverso la costruzione di un network di solidarietà, che sostenga gli artisti sotto minaccia con fondi, patrocinio legale, pressioni diplomatiche.
«Qui siamo venuti per parlare di cinema – ha chiosato Nyrabia – siamo venuti a dirvi che si devono aiutare i cineasti a proseguire nel loro lavoro: la film community internazionale è potente, quando si muove assieme, e può fare qualcosa di efficace. Non facciamo diventare questo disastro soltanto un nostro scrupolo umanitario o di solidarietà: è soprattutto questione di capire che perdere una generazione di intellettuali e in questo caso di cineasti è un impoverimento per tutti, per tutto il mondo».