Comincia domani, primo maggio, il periodo Reiwa, l’era imperiale giapponese numero 248. Succederà a quella Heisei, iniziata l’otto gennaio del 1989 con l’ascesa al trono dell’imperatore Akihito che ha deciso di abdicare per anzianità.
I media dell’arcipelago in questi ultimi mesi si sono scatenati a ripercorrere tutti gli eventi, tragici e frivoli, politici e di gossip, che hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni di storia giapponese. Questo anche perché c’è stato il tempo necessario per preparare il passaggio alla nuova era che, come si diceva, avviene in questo caso con un’abdicazione annunciata e non con la morte dell’imperatore reggente.

Come spesso accade per le ere e i periodi di cui si scrive o si parla – gli anni settanta contro gli ottanta per esempio – si tratta di «inquadrature» che lasciano molto altro «fuori campo»: ogni periodizzazione è un po’ anche una forzatura ed un modo per semplificare le narrazioni che invece continuano e si biforcano in mille rivoli e spesso percorrono tempi diversi. Fatte queste necessarie premesse, è anche inevitabile che la fine di un periodo coincida con un interessante esercizio di memoria critica per riconsiderare alcuni aspetti storici o riscoprire qualcosa che era magari passato inosservato nel momento del suo accadere. La fine del periodo Heisei è allora un’occasione per riflettere su quello che è successo nella cinematografia dell’arcipelago, e di conseguenza nella società nipponica, in questi ultimi trent’anni.

NON SI PUÒ che partire dai due eventi storici che più hanno caratterizzato gli anni novanta nel Sol Levante. In un momento in cui la bolla speculativa ed economica pompata durante gli anni ottanta si stava lentamente sgonfiando, nell’«annus horribilis» 1995, c’è stato prima il terremoto che ha colpito la zona di Kobe in gennaio e due mesi dopo l’attacco alla metropolitana di Tokyo perpetrato da alcuni adepti della setta Aum con il gas sarin. Eventi che hanno rappresentato per la nazione asiatica una sorta di spartiacque: hanno lasciato cicatrici profonde nel paese e i loro «riflessi» sono naturalmente percepibili anche nel mondo del cinema.

Come spesso accade, nei periodi di crisi le arti diventano un territorio privilegiato per confrontarsi con le problematiche che affliggono il presente e la settima arte giapponese degli anni novanta è stata decisamente all’altezza. A cavallo fra la fine degli anni ottanta e gli inizi del decennio successivo si sviluppa una sorta di nuova onda di registi emergenti, dopo quella più famosa fra gli anni sessanta e settanta. Titoli quali Violent Cop e Sonatine di Kitano, Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto o Maboroshi di Hirokazu Kore’eda fanno parte oramai della storia del cinema mondiale, ma i primi anni novanta sono anche il periodo in cui emergono il talento di Naomi Kawase con i suoi primi documentari personali e soprattutto le geniale follia di Takashi Miike che si rivela nel mercato del cosiddetto V-cinema: i film girati e distribuiti esclusivamente per il mercato delle videocassette, palestra formativa per molti autori.

LA SECONDA metà del decennio sarà una conferma di queste tendenze con l’avvento di altri nomi importanti, come Kiyoshi Kurosawa con Cure e Pulse e Shinji Aoyama con Helpless e soprattutto Eureka nel 2000. Proprio il volgere del secolo solidifica la fama internazionale di molti di questi registi ed alcuni di essi partecipano anche a quella rinascita del cinema dell’orrore giapponese che sarà conosciuta come J-horror. Ringu di Hideo Nakata diventa un fenomeno di culto in tutto il mondo e lancia la moda dell’orrore dal Sol Levante, mentre nel 2000 Miike scandalizza il festival di Rotterdam con Audition.

In un paese che sta attraversando un periodo di stagnazione economica e sociale, sia il cinema di genere che quello autoriale riescono a scavare e mettere in luce la part maudite della società e degli individui, quella che spesso si nasconde sotto la patina di cortesia e moderazione della superficie. Ma i film dei primi decenni dell’epoca Heisei mettono in primo piano anche la fragilità e la finitezza del corpo umano (le due tragedie a cui si accennava sopra sono l’elemento scatenante) e l’inevitabile ibridazione con l’elemento tecnologico ed inorganico che il futuro prossimo sembra annunciare.

Il cinema del nuovo millennio consolida la posizione dei nuovi autori lanciati nell’ultimo decennio del secolo precedente: i nomi già citati si confermano a livello internazionale con importanti partecipazioni e riconoscimenti nei maggiori festival. Kore’eda con un cinema che si rinnova pur rimanendo fedele a se stesso sfonda definitivamente, Tsukamoto si rivela come un artista a tutto tondo non disposto a scendere a compromessi e veramente indipendente, e Kawase si cimenta con successo nel cinema di finzione. Solo Kitano pare molto lontano dai lampi di poesia e di splendore delle prime opere. 

Nel nuovo millennio si affacciano inoltre anche alcuni volti relativamente nuovi: Sion Sono che con Love Exposure raggiunge una maturità artistica che nel decennio precedente era ancora un po’ acerba, e negli ultimi anni Ryusuke Hamaguchi, Fukada Kenji, Mipo O e Momoko Ando si rivelano alcune delle voci più originali provenienti dall’arcipelago.

EPPURE il cinema giapponese nel suo complesso sembra arenarsi nell’ultimo decennio su prodotti che poco rischiano e di qualità non certo eccelsa, grandi drammoni dal sapore già conosciuto che usano il grande schermo come veicolo per mostrare volti noti della televisione, oppure film che sfruttano franchise di successo provenienti dal mondo dei manga o del piccolo schermo. Il paragone con il cinema sudcoreano e il suo alto livello produttivo, che esplode definitivamente proprio in questi primi due decenni del nuovo millennio, è inevitabile e francamente impietoso.

All’estremo opposto, il cinema indipendente giapponese non sembra aver recepito appieno il potenziale insito nell’avvento del digitale: la «teologia della liberazione», secondo la bella definizione data al cinema digitale da Lav Diaz, non ha, se non in alcuni casi isolati, trovato in Giappone un’espressione ed una forma peculiare. Neanche dopo la tragedia dell’undici marzo 2011 – il terremoto ed il disastro nucleare che ha colpito il paese – il cinema giapponese, anche quello documentario, non sembra sia stato capace di uscire dalle sabbie mobili in cui si trova oramai da più di un decennio.

NON HA DELUSO di certo l’animazione, diventata in questi ultimi trent’anni sempre di più sinonimo di prodotto giapponese per eccellenza. Dalla definitiva consacrazione dello Studio Ghibli, Hayao Miyazaki e Isao Takahata con capolavori dell’arte cinematografica destinati a restare, fino all’emergere di Mamoru Oshii (Ghost in the Shell, Innocence) e delle sue visioni filosofiche e futuristiche che tanto hanno influenzato il cinema di fantascienza a livello internazionale. Non si può dimenticare Hideaki Anno e la sua creazione Evengelion, serie che ha rivoluzionato il genere sul piccolo schermo e poi al cinema, e soprattutto Satoshi Kon.

Scomparso prematuramente nel 2010 Kon è stato autore di alcuni dei più diversi e pregevoli lavori dell’epoca Heisei, da Perfect Blue a Millennium Actress, da Tokyo Godfathers a Paprika. Gli ultimi anni inoltre hanno visto la definitiva consacrazione di altri e relativamente più giovani autori come Keiichi Hara con Miss Hokusai e soprattutto Makoto Shinkai, prima con 5 cm al secondo e tre anni fa con il successo planetario Your Name.

L’ANIMAZIONE è un buon punto per concludere questo breve excursus, perché incarna i due aspetti che più caratterizzano il cinema giapponese nel suo complesso e il modo in cui si è sviluppato in questi ultimi decenni. Da una parte delle punte di assoluta eccellenza che hanno portato la cultura popolare nipponica a diffondersi in tutto il globo, dall’altra dei problemi strutturali che sembrano corrodere l’industria dal suo interno: animatori sottopagati, orari di lavoro da rivoluzione industriale ed una mancanza di volontà di cambiare. Problemi che si protraggono da molto tempo e che attraversano le ere imperiali.