In tutti i paesi che hanno adottato il lockdown, il successo delle piattaforme di streaming, di vod, di download ha conosciuto un’accelerazione. Si sono create o si sono consolidate alcune belle esperienze di «siti d’autore» ma il grosso del mercato è stato assorbito dai soliti sospetti: Netflix, Amazon, Apple. Questi grandi gruppi, che da diversi anni stanno ridisegnando il mercato europeo non hanno esitato a cogliere l’occasione per chiudere la partita con la sala. È un tema in generale europeo, il caso francese però è centrale perché la Francia è, tra i paesi dell’Unione, quello che possiede la struttura di produzione e di diffusione più considerevole, quello che ha più da guadagnare o da perdere in questa transizione che è al tempo stesso economica e culturale.
Per rendere più concreta questa piccola inchiesta, e accompagnarci attraverso i punti critici, abbiamo parlato con una giovane regista francese, Marina Deak. «Come spettatore, mi capita di vedere film su Netflix. Ma uso l’abbonamento soprattutto delle serie televisive – dice Marina – Per il cinema c’è Mubi, una piattaforma che esiste da oramai una decina d’anni e che propone una vera e propria programmazione mensile di cinema d’autore da tutto il mondo, sia contemporaneo che storico. D’altro lato, mi rendo conto che, nella visione domestica, sono meno disponibile che in sala. Vado al cinema con entusiasmo a vedere un film di un formato inusuale mentre a casa tendo a privilegiare formati più brevi e opere più convenzionali. Per questa ragione, vorrei che i miei film siano distribuiti al cinema».

DA OLTRE UN ANNO, il governo francese, tramite il ministro della cultura e il Centro nazionale della cinematografia (Cnc), tratta con i grandi diffusori di cinema su internet per trovare un’intesa sulla contribuzione di questi ultimi alla produzione e alla diffusione di film francesi ed europei. In un primo tempo, erano apparse delle indiscrezioni piuttosto incoraggianti per il settore ma il decreto annunciato ha invece suscitato grande preoccupazione riassunte in una lettera aperta che cento cineasti hanno pubblicato sul quotidiano «Le Monde» nelle scorse settimane.
Per capire il problema, bisogna delineare le grandi linee di questo sistema francese che garantisce in media la creazione di 200 lungometraggi l’anno, tra cui una parte assai importante è costituita da coproduzioni con cineasti di altri paesi europei e non solo. Non si tratta quindi di un tema sciovinista. Senza di il sistema francese, o con un suo ridimensionamento, sarebbe la cinematografia mondiale d’autore a uscirne impoverita.
Tra i cento cineasti firmatari di questa lettera aperta, oltre alla stessa Deak, ci sono registi Audiard, che ha fatto film da dieci milioni di euro, e quasi tutti i cineasti attivi in Francia. Chiediamo a Marina:Siete molto diversi, ma difendete tutti lo stesso sistema. Perché? «Nel mio caso, e credo di non essere la sola, il ragionamento è il seguente. Il sistema di finanziamento del cinema non è perfetto. Sono tanti anni che osserviamo un deterioramento della produzione e della distribuzione. C’è inoltre un problema di riproduzione di un modello di cinema senza dubbio troppo basato sulla sceneggiatura. E che ha difficoltà a far entrare nomi e forme nuovi. Insomma, si tratta di un sistema che è in crisi sia economica che estetica. D’altro canto è un sistema che garantisce a decine di migliaia di persone di sopravvivere di cinema: cineasti, sceneggiatori, produttori, esercenti, addetti stampa, tecnici del set o della sala, curatori e programmatori… Tutta questa struttura ha tendenza ha produrre delle opere che non sono tutte buone o innovative. Senza di esso però quello che c’è di buono si troverebbe davanti ad un deserto. Ecco perché è interesse di tutti che sopravviva».

L’ARCHITETTURA di questo sistema è assai complessa, ma la si può sintetizzare in un principio e in due strumenti. Il principio è la priorità della sala sugli altri media per la diffusione del cinema. Gli strumenti sono la redistribuzione degli incassi. Ogni distributore, poco importa il luogo di produzione dei film del suo catalogo, è tenuto a versare una parte del beneficio ottenuto in Francia ad un fondo comune che in seguito viene utilizzato per finanziare il cinema nazionale d’autore. E poi la diffusione dei film alla televisione. I canali televisivi che diffondono film – come per esempio Canal+, sono obbligati a riservare una certa parte del proprio palinsesto ai film francesi, con il doppio risultato di finanziare le produzioni e diffonderne il risultato. Ora, non c’è bisogno di essere indovini per immaginare che questa legislazione non piaccia agli Studios nordamericani – che alla diversità culturale preferiscono il monopolio. Gli Studios si sono comunque in passato piegati alla legislazione francese, che con la sua vivacità di sale e di pubblico garantisce un mercato del quale i primi a beneficiare sono proprio le produzioni hollywoodiane.
Il secondo strumento di cui abbiamo parlato era stato introdotto in un momento in cui il nuovo media, e potenziale concorrente della sala, era la televisione e in particolare i canali via cavo. Ma oggi la televisione – nel campo della diffusione di lungometraggi – è stata sorpassata dalle piattaforme di streaming. Il governo francese si è impegnato due anni fa a rivedere la normativa, in breve, a far pagare i nuovi arrivati. Ed uno dei nodi è ovviamente quello dell’acquisto obbligatorio di produzioni nazionali.

 

I NEGOZIATI si sono svolti con alcune interruzioni durante il 2020 con da una parte il Cnc e dall’altra i grandi gruppi. Una direttiva europea del 2018 (Sma) stimola gli stati membri a introdurre una quota di almeno 30% di contenuto europeo nel loro catalogo e impone degli investimenti in progetti europei. All’inizio il negoziato sembrava piuttosto serio. La proposta era di imporre il 25% dei ricavi alla produzione locale. Per un’impresa come Netflix si tratta di qualcosa come 200 milioni di euro l’anno. Tutti i grandi non hanno reagito alla stessa maniera. Amazon e Apple comunicano il meno possibile con l’esterno. Diverso è i caso di Netflix che ha cercato in Francia di imporsi come una piattaforma non insensibile al mercato dove mette i piedi.
Ma il decreto effettivamente presentato dal governo è assai meno ambizioso di quanto era stato annunciato. La tribuna dei cento cineasti fa notare due elementi. Il primo è il contributo effettivo, che dovrebbe attestarsi intorno ai 18 milioni annui per una piattaforma come Netflix. Una frazione di quanto paga attualmente Canal+, che versa qualcosa come 100 milioni annnui. Che cosa succederebbe, si chiedono i cineasti, se Canal decidesse allora di diventare una piattaforma di streaming a sua volta ?

L’ALTRO NODO chiave è quello della cronologia dei media. Ovvero il principio secondo cui un film dall’uscita in sala, alla pubblicazione in Vod o in Dvd o alla diffusione televisiva deve passare un certo tempo. Questa cronologia è già stata modificata per ovviare alla chiusura delle sale. Molti paventavano allora che l’eccezione diventasse regola. «Non so se è superata, ma penso che vada assolutamente combattuta – dice ancora Marina Daek. La nostra lettera rispondeva a una strana lettera aperta pubblicata sempre su «Le Monde» da due personalità della produzione francese, Pascal Rogard e Jérôme Seydoux, i quali suggerivano la possibilità di rivedere il principio della cronologia. A mio avviso è un errore. Il cinema è un ecosistema fatto di molti elementi, alcuni poco visibili, ma che lavorano con un equilibrio fragile all’esistenza del cinema francese. Togliere i limiti di legge è come dire che la protezione della foresta Amazzonica non serve a nulla perché sta al mercato decidere cosa farne».