Nella sostituzione di un cartellone pubblicitario, la mattina della morte di una donna che gli era molto cara, Jorge Luis Borges lesse una volta la rivelazione del fatto che le cose vivono un’esistenza indifferente al destino degli uomini, dai quali prendono le distanze in molti modi. Siamo abituati a pensarle come «oggetti», entità inerti che ricevono senso dallo sguardo di un soggetto. Chiamarle «cose» significa riconoscere, invece, la loro capacità di tessere relazioni in modo autonomo ogni volta che, con la loro presenza, contribuiscono a definire uno spazio, un’atmosfera, uno stato emotivo. Le cose sono perciò immerse in un continuo divenire che spesso ignoriamo del tutto, ma che il cinema ci ha aiutato a scoprire grazie alla sua capacità di coglierne i movimenti, di seguirne le trasformazioni, gli adattamenti, le metamorfosi da «oggetti» collocati sullo sfondo a «cose» dotate di una vita propria.

Il ruolo che le cose occupano nel cinema è il tema del libro di Antonio Costa La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock Il senso delle cose nei film, volume riccamente illustrato nel quale convergono, oltre a testi nuovi, anche scritti pubblicati dall’autore nell’arco di un decennio, a testimonianza di un interesse coltivato nel lungo periodo (Einaudi, pp. 370, euro 35,00). Nel cinema, osserva subito Costa, le cose sono profondamente implicate nei processi formali di costruzione del racconto. I film non si limitano a registrarne o a evidenziarne l’esistenza, ma le mitologizzano e le proiettano in un circuito comunicativo senza precedenti.

Rem Koolhaas ha scritto che al di là di una certa massa critica ogni edificio, anche il più sgraziato, diventa un monumento. Alle cose, nei film, capita qualcosa di simile. Gli oggetti più piccoli e banali acquistano un’aura di artisticità. Alcuni si preparano a diventare icone di un’epoca, altri partecipano agli snodi di una trama in modo così aperto da ottenere un risalto del tutto nuovo, quasi fossero essi stessi degli attori, come avviene per esempio con Hitchcock, autentico maestro di un cinema delle cose.

Il titolo del libro di Costa trae spunto da un accostamento brillante che Jean-Luc Godard ha effettuato nelle sue Histoire(s) du cinéma e che prende come riferimento proprio Hitchcock. Spesso, dice Godard, si dimenticano gli snodi delle sue trame o i motivi che hanno portato i personaggi all’interno degli intrighi che sono chiamati ad affrontare. Impresse nella nostra memoria rimangono piuttosto immagini sparse delle cose che Hitchcock ha collocato nei suoi film: un camion nel deserto, un bicchiere di latte, un mazzo di chiavi, una fila di bottiglie. La logica visiva non è molto diversa da quella della pittura: «il lavoro d’innesto dell’oggetto nel tessuto narrativo non è per nulla inferiore», osserva Costa, «a quello svolto nell’atelier del pittore». Ma nel cinema il primato delle cose non resta ancorato al piano melodrammatico della narrazione. La vastità del pubblico a cui il cinema si rivolge trasforma infatti le cose in veicoli dell’immaginario collettivo, situandole su «un piano assoluto che coinvolge a un tempo la dimensione sensoriale e quella conoscitiva».
Godard concludeva così, allora, le sue annotazioni su Hitchcock: «forse diecimila persone non hanno dimenticato la mela di Cézanne, ma sono un miliardo gli spettatori che ricorderanno l’accendino di Delitto per delitto».

Il cinema dunque amplifica il senso delle cose, dona loro un «sovrappiù d’essere», come avrebbe potuto dire Hans-Georg Gadamer, che di volta in volta le ingigantisce o le rimpicciolisce, le isola o le immerge in nuove relazioni, le accelera o le rallenta, le anima o le fossilizza. Le strategie di costituzione del senso sono così varie da rendere impossibile persino tracciare l’elenco di una tipologia bene ordinata. Costa fa un tentativo in questa direzione separando le cose comuni di ogni giorno dagli elementi naturali e dal paesaggio, oppure distinguendo il trattamento riservato ad alcuni oggetti privilegiati – per esempio ai dispositivi ottici: finestre, specchi, lenti, occhiali – e quello che ha investito i prodotti del design industriale.

L’ordine degli argomenti, però, viene forzato di continuo dalla rapsodicità degli accostamenti e si disperde nelle diramazioni rizomatiche di un libro che vale soprattutto per la moltiplicazione degli esempi che spaziano in tutta la storia del cinema e travalicano ogni distinzione di genere, sostando anche nei campi del documentario e della videoarte. Per dotarsi di un linguaggio idoneo ad affrontare un tema in larga parte nuovo Costa attinge alla semiotica e alle teorie del design, alla filosofia e alla critica cinematografica. Ma i passaggi più accademici e saggistici del libro restano pur sempre dei preliminari, puntualmente superati dalla ricchezza dell’esemplificazione.

Enumerare i registi, i titoli, le epoche e le cose prese in considerazione da Costa sarebbe vano, trattandosi di un libro che transita con scioltezza dalla scacchiera di Casablanca agli oggetti del monte dei pegni di uno dei primi film di Charlot (The Pawnshop, 1916), o dagli esperimenti di Brunelleschi sulle camere ottiche agli occhiali indossati da Nicole Kidman nelle scene finali di Eyes Wide Shut, l’ultimo film di Stanley Kubrick. Alcuni capitoli, come quello finale che elenca alfabeticamente alcuni oggetti del cinema, o quello dedicato al design nel cinema italiano degli anni sessanta e settanta, hanno uno spirito enciclopedico da cui possono scaturire altri spunti di riflessione e discendere una serie di studi a venire. Ma ci sono almeno due nuclei centrali, due famiglie di cose, i dispositivi ottici, appunto, e le locomotive, che ben riassumono l’operazione di Antonio Costa.
Il cinema infatti, a partire dai primi esperimenti dei Fratelli Lumière, ha imposto il treno come prototipo dell’immagine in movimento e la stazione ferroviaria come «fabbrica dei sogni», secondo una proiezione che non sfuggì a Walter Benjamin e che da Georges Méliès, autore nel 1898 di un Panorama pris d’un train en marche, attraversa tutta l’epopea del Western e giunge, sulla via del ritorno alle origini, fino al sogno visionario e retrospettivo di Hugo Cabret, il film con cui Martin Scorsese ha celebrato Méliès.

I dispositivi ottici, d’altra parte, sono gli oggetti che il cinema ha usato per provare a definire il proprio sguardo e per evidenziarne il carattere di artificio: dalla porta che inquadra John Wayne sullo sfondo di un orizzonte desertico in Sentieri selvaggi fino alla mitologia delle finestre e agli obiettivi fotografici che hanno attratto l’attenzione di tanti registi, a cominciare da Michelangelo Antonioni. Le cose, nei film, non parlano perciò solo di un mondo esterno al cinema, quello che appartiene anche alla vita quotidiana degli spettatori e che è diventato sempre più problematico. Oggi, osserva Costa, a «uscire dal cinema» non sono più solo spettatori ancora incantati dall’effetto del «cubo scuro» all’interno del quale hanno assistito allo spettacolo, come scriveva Roland Barthes, ma è il cinema stesso, trasmigrato fuori dalle sale, nelle case, e assediato in modo crescente da due lati: la narrazione delle serie televisive da una parte, la pressione della videoarte dall’altra.

Il mondo delle cose sembra così il mezzo paradossale al quale il cinema si aggrappa per restare se stesso, parlare di se stesso, rimanere all’interno dei suoi sterminati confini per non disperdersi nell’indifferenza dei media. E questa ansia, che si avverte in realtà anche in un libro sostanzialmente allegro come questo, non è solo appannaggio dei cinéphiles, cioè dei destinatari più immediati del lavoro di Costa, ma può essere condiviso anche dagli altri, cioè da coloro che con buona pace di Godard stimano essere ben più di diecimila, al mondo, quelli che hanno in mente le mele di Cézanne e si sentono fuori, invece, da quel miliardo che ha in memoria gli accendini di Hitchcock.