Nell’edizione di quest’anno di Archivio Aperto (www.archivioaperto.it), Home Movies offre la possibilità di vedere il capolavoro del filmmaker israeliano David Perlov, Diary (1973-83), sulla piattaforma online MYmovies, fino al 7 novembre.

Si tratta di una bella occasione per poter (ri)scoprire un’opera che, fra i suoi tanti pregi, ha senz’altro quello di rappresentare una sorta di esempio impareggiabile di film-diario, e cioè di quel particolare genere cinematografico che è sempre più utilizzato dagli autori indipendenti di oggi, da Occidente a Oriente.

Ma che cos’è che renderebbe il progetto di Perlov unico? Al di là dei dati tecnici – per esempio, la tipologia di ripresa (16 millimetri), la struttura (6 parti di un’ora circa ciascuna), e la produzione (Channel 4 figura come co-produttrice) – si può focalizzare l’attenzione sulla complessità tematica e stilistica dell’opera.

Un diario in pubblico
C’è tutto in Diary di Perlov: quanto succede all’uomo (gli spostamenti e i viaggi; il lavoro come professore di cinema); alla famiglia (la moglie ma soprattutto le figlie, gli amici e le persone vicine); nella nazione (la politica interna israeliana con le elezioni; quella estera con le guerre e le proteste di quegli anni), dal 1973 al 1983. A dare continuità a questi blocchi tematici, c’è la voce fuori campo dell’autore, la cui presenza si fa a volte narrazione di ciò che si vede, a volte – invece – commento o trait d’union. La voce di Perlov, nonostante sia sostanzialmente una costante, non da mai una impressione di invasività (nella scena) o di imposizione (nel montaggio). È un «parlare sopra» o «tra» le cose che ci guida attraverso il corso del tempo, senza pregiudicare o appiattire quanto è mostrato.

Nel complesso, per questa opera che sembra intima e monumentale al tempo stesso, prendendo in prestito una formula letteraria, si potrebbe parlare di una sorta di diario in pubblico, quindi una narrazione che va al di là della mera confessione del singolo per farsi, idealmente, epica del quotidiano. O, quantomeno, una sua trasfigurazione. Si potrebbe parlare di una trama di momenti concepita per essere vista e ascoltata, in cui si va dal piano personale a quello, diciamo, collettivo, e viceversa. Senza soluzione di continuità. Da questo punto di vista, tutti i non-detti possibili sembrano – in qualche modo – parlare, poter significare sempre qualcosa. Certo, non tutte le parti di Diary sono uguali, dal momento che alcune sembrano più strutturalmente monotematiche come, per esempio, le prime due.

Tuttavia, l’impressione generale è che davvero la mobilità dello sguardo panoramico dell’autore – una forza onnicomprensiva – riesce alla fine a metterci a nostro agio nel montaggio delle memorie in gioco nell’opera. Inoltre, se si vuole, si potrebbe perfino parlare di questo progetto filmico come di una «pittura» di tutto quello che c’è, o passa, tra personale e politico. E cioè quanto, di una autobiografia, non appartiene solo al soggetto che scrive, che filma, o pensa.

Opera in progress
Sul piano formale non è forse sbagliato pensare a Diary di Perlov come ad un’opera profondamente moderna. Nello specifico, se si pensa che l’idea di cinema che la informa possa essere in sintonia con l’intenzione – per citare Godard – di dipingere quello che c’è tra le cose, allora il quadro autobiografico che viene fuori è un progetto la cui direzione si potrebbe leggere in due versi, simultaneamente presenti. Da un lato, assumerebbe la parvenza di letterale «auto-bio-grafia», una specie di scrittura automatica della vita presa in esame. Dall’altro, invece, l’espressione di una tendenza ad una personalizzazione di vicende e rappresentazioni senza avere mai l’esposizione completa – il volto nudo – del soggetto che parla. In sostanza, sarebbe autobiografismo.

Questa doppia lettura potrebbe sembrare una ipotesi più chiara se si guarda ad altri casi di autori che hanno sperimentato la forma diaristica. Anche se narratore unico e quasi onnisciente, Perlov non usa la macchina da presa come protesi di sé stesso e del suo immaginario, alla maniera di un Mekas. Ci sono momenti leggibili in questo modo ma la cifra stilistica globale di Diary non è uguale a quella del celebre avanguardista. Allo stesso tempo, tutti i film che compongono il diario del regista israeliano non presentano registri né esclusivamente documentaristici né direttamente saggistici. La realtà è il più delle volte rosselliniamente mostrata, a mo’ di aneddoto o epifania, ma non mancano momenti di costruzione del discorso più inclini alla riflessione intellettuale come oggetto primario. Lontano da certi cascami avanguardistici, ma anche né solo saggistico né solo documentario: a posteriori, questa modalità di lettura potrebbe forse fungere da premessa per apprezzare il magnetismo di Diary.