Un regista forse anomalo Ryusuke Hamaguchi nel quadro del cinema giapponese degli ultimi quarant’anni, anche se tra gli anfratti dei dialoghi e dei silenzi che sono la sostanza dei suoi film e si ricollegano a grandi direttori di dialoghi come Ozu, proprio rispetto alla messa in scena, alla distribuzione nello spazio dei parlanti, emerge un elemento focale di quel quadro, il corpo, così centrale nell’arco cinematografico esteso da Wakamatsu e Oshima a Tsukamoto, con in mezzo registi in diverso modo «carnali» come Kitano, Takeshi Miike, Sion Sono, Aoyama.

UN CORPO ora raccontato, immaginato più che mostrato e una sessualità laconica, sottintesa quanto necessitata, sintomo di ferite divaricate, di incrinature vertiginose nelle psicologie al centro di due film usciti in Italia nel 2021. Uno è Drive My Car, ora in lizza per gli Oscar come miglior film internazionale. L’altro, forse il capolavoro tra i due, è Il gioco del destino e della fantasia: film in tre episodi, in cui i personaggi si sfiorano, si perdono, si ritrovano per un momento in una realtà che tende a rarefarsi, a perdere i contatti con i propri presupposti concreti – case, strade, stanze segnate da porte sempre aperte – in favore di un’ambiguità, qualcosa di straniante come un dormiveglia – che ricorda Hong Sang-soo: certi silenzi, certa svagatezza del dispositivo-cinema come una perdita di memoria che si svolge nello spazio esistente, inesistente tra una parola e l’altra, nelle ambagi delle frasi, del tentativo di comunicare, di spiegare la contraddizione dei sentimenti. Tutto un tessuto dialogico attraverso cui confessarsi o schermirsi di fronte all’altro che a tratti riecheggia Rohmer, mentre in altre circostanze diviene qualcosa a sé, qualcosa di inaudito, come nel secondo episodio, Porta spalancata, capolavoro dentro il capolavoro, in cui la parola emerge nella sua carica erotica, nell’erotismo della semplice pronuncia della voce femminile – una voce e parole di cui ci si innamora – che racconta, dice «bocca», «lingua», «eiaculazione».

ECCO, non solo la dimensione ma anche le conseguenze delle parole: il cinema di Hamaguchi sembra ruotare intorno a questa dinamica, alla vita delle parole che si perpetua come un’eco nel tempo e nel cinema. Sono le ultime parole pronunciate da Oto in Drive my car, che risuonano in Yusuke come un rimorso costante, un riverbero del silenzio sopravvenuto, e trovano nel testo letterario e nel teatro di Cecov il palcoscenico su cui rappresentarsi. All’inizio è Murakami di cui il film porta le stimmate: il racconto omonimo, non troppo lungo, che Hamaguchi diluisce nelle tappe, nel passo compassato di una macchina-feticcio, la Saab 9000, cioè nel passo compassato della macchina da presa, come a mostrare personaggi chiusi in se stessi, quasi catafratti di un silenzio, di un non-detto che è il contrappunto essenziale del loro rapportarsi attraverso una densa congerie di parole.

UN ENIGMA – l’interiorità dei personaggi, il loro segreto dolore, le loro nevrosi e il cumulo imprevedibile dei desideri – che si presenta e si scioglie via via che il racconto si consolida e che poi il testo teatrale si diluisce nello spazio dell’immagine: il regista e attore teatrale Yusuke insiste ossessivamente sulla parola, rileggendo insieme agli altri attori lo Zio Vanja di Cecov, perchè la parola entri in circolo, si stagli nel corpo, lo possegga prima di suscitare l’interpretazione, la recita. È il letterario nel cinema: non l’adattamento ma la coesione, un possibile terreno di coesistenza e di consistenza di due linguaggi differenti che si cagliano nell’immaginazione, proprio come in Rohmer, divenuto corifeo di ogni altro film parlato.
Ma in Drive My Car si assiste proprio alla carne nuda e all’ossatura di questi due piani luminosi, letteratura e cinema che s’intersecano, si sovrappongono, si confondono non prima di aver svelato la natura teorica e immaginifica di questa dinamica. Perciò spesso si crea un contrappunto tra ciò che si vede, ad esempio due corpi stesi nella penombra dopo l’amplesso, e ciò che si sente, cioè la narrazione da parte di Oto, di un amore adolescenziale, le immagini veicolate da questo racconto che restano fuoricampo eppure in un certo senso si sovrappongono, come in sovrimpressione, alle forme del quadro. O le vicende dei protagonisti ambientate in una Hiroshima diradata, sonnambolica – anche le vicende della messa in scena dell’opera di Chekov – che si sostituiscono a tratti al dramma di Zio Vanja, s’impossessano di quei personaggi richiamati dalle commessure del tempo, come quelli di un altro zio, i fantasmi o i demoni dello Zio Boonmee che invadevano in trasparenza i contorni delle cose e perpetuavano così quell’atavica possessione e quel mesmerismo continuo che è il cinema.
Ecco, al di là dell’esaltazione che si tende a fare di Drive My Car, che pure è un buon film, è questa possessione, il processo stesso attraverso cui la materia cinematografica entra nei contorni delle cose e dei personaggi parlanti o silenti evocando qualcosa come un sogno a occhi aperti, la riva di un giorno, il vertice del cinema di Hamaguchi, almeno i primi due episodi di un film il cui titolo racchiude tutta una poetica, fors’anche tutta la Poetica possibile e immaginabile: il gioco del destino e della fantasia.