«Faccio film per non dover parlare troppo». Laila Pakalnina, regista lettone che nelle settimane scorse ha ricevuto a Gorizia il premio Darko Bratina – Omaggio a una visione del Kinoatelje, non ama dover spiegare con le parole i propri lavori. Preferisce filmare, difatti è autrice piuttosto prolifica, produttrice e regista dei suoi lavori, uno all’anno o anche di più. Ora ne ha tre in post-produzione, dei quali uno su e uno che riguarda il grande Sergej Eisenstein e uno su una nave che affondò al largo delle coste vicino al confine con l’Estonia. Una filmmaker nota nel circuito dei festival spesso presente in quelli italiani, da Venezia a Filmmaker a Milano, Trieste Film Festival, Roma e parecchi altri, ma mai presente nei grandi concorsi e mai distribuita.

I suoi lavori trattano spesso di confini, di limiti, per questo l’associazione goriziana le ha assegnato un premio originale (nel palmarès Franco Giraldi e l’armeno Harutyun Khachatryan, vincitore del Festival di Torino 2014 con Endless Escape, Eternal Return), itinerante con incontri e proiezioni di qua e di là della frontiera italo-slovena, tra Nova Gorica, Gorizia, Izola, Trieste, Udine e Lubiana. «In queste giornate ho smesso di contare le volte in cui ero in Italia o in Slovenia o attraversavo il confine – ha esordito Pakalnina nella masterclass che l’ha vista protagonista – Muoversi tra i due paesi è l’unico modo per spostarsi in questa zona. Ai tempi dell’Urss ci insegnavano che non c’erano confini, c’era pure una canzone che diceva di attraversarli a testa alta, ma mia nonna mi diceva spesso: tu passa il confine che poi ti sparano». La Slovenia ha la stessa condizione della Lettonia rispetto ai confini: prima non esistevano, solo con l’indipendenza abbiamo sentito stranieri i paesi vicini e con Schengen i confini sono spariti di nuovo».

In occasione del premio, la regista ha mostrato molti dei suoi lavori, dalla paradossale Cenerentola al contrario di Kurpe – The Shoe (che nel 1998 fu selezionato a Un certain regard a Cannes e la fece conoscere internazionalmente) al brevissimo Short Film About Life (2014) su una partita di calcio conclusa ai rigori vista dai giocatori che assistono ai tiri. «I titoli dei miei film sono brevi, secondo me devono essere così. L’importante è che attraggano l’interesse. È curioso che il titolo più lungo appartenga all’ultimo che è il mio film più corto, solo due minuti». La regista passa dalla finzione (quattro lungometraggi al suo attivo) al documentario, li mescola con una maniera molto personale. «Non conta comprendere tutto razionalmente, per me il cinema non è solo razionalità, è anche fatto di sensazioni» ha spiegato Pakanina, introducendo quelli che definisce «drammi assurdi». Un senso dell’assurdo che ritorna spesso. «Il mio cognome significa ’collinetta’ e sono frequenti da noi in nomi con questo significato, strano perché in Lettonia quasi non ci sono colline, la cima più alta è a 300 metri di quota!». A questo è legato uno dei suoi lavori che più hanno circolato nei festival, Sneg – Neve, su impianti sciistici nonostante il terreno quasi piatto. «L’idea è nata da un commento dell’attore sloveno Branko Završan (il protagonista di Tir di Alberto Fasulo, ndr), che ha lavorato con me in The Hostage, sul fatto che in Lettonia non ci sono montagne e dalla sua reazione quando l’ho portato a vedere una nostra località sciistica. Faceva foto in continuazione e diceva: è incredibile, avete tutto il necessario ma le piste dove sono? Sapevo da tempo che c’era qualcosa che non funzionava in questo, ma quando è arrivato uno straniero a farmelo notare ho capito che dovevo farci un film. Ci sono vari centri sciistici, il più noto è di proprietà di un attore famoso che fa sempre il ruolo dell’amante, unendo humor e bellezza».

Sul suo genere di comicità preferito, Pakalnina è lapidaria: «Mi fa ridere tantissimo uno che cade su una buccia di banana. Più di un gioco di parole». «Mi piacciono le scene statiche – ha aggiunto – anche se è di moda la camera a mano. Anche nei documentari preferisco lavorare con un operatore, meglio avere qualcuno più bravo di me nei vari compiti. Per prima cosa gli faccio mettere il treppiede, solo dopo, quando c’è la composizione del quadro, qualcuno ci entrerà dentro. E magari cadrà!». Pakalnina si è diplomata al Vgik di Mosca nel 1991 e questa formazione ha lasciato un segno sul suo modo di lavorare: «Ho cominciato con vecchie attrezzature sovietiche che mi hanno insegnato a fare molta attenzione al sonoro, perché la presa diretta era inutilizzabile: iniziai a giocare con i suoni ed è diventata una divertente abitudine. Girai Ferry nel ’94 su un fiume che segna il confine tra Lettonia e Bielorussia con una camera Konvas che faceva il rumore di un trattore. Raccontano che avesse una Kovas un operatore dell’esercito quando l’Urss invase l’Afghanistan e che gli afgani vedendolo fossero scappati perché la credevano un’arma sconosciuta!».
Una regista che ha un modo suo di operare e scegliere. «Mi piace molto il bianco e nero – ha spiegato – Può essere molto ricco di colore e ha tante sfumature. Non sono contraria al colore, lo uso, ma vedo il macine soprattutto in b/n. La musica mi fa un po’ paura, la uso raramente, anche per ragioni di diritti, ma sono aperta alle collaborazioni, da un rapper lettone a un compositore giapponese. In The Hostage, dove un aereo è dirottato a Riga e un bambino tra i passeggeri vuole sapere tutto sul Paese nel quale è capitato, potevo far cantare solo la troupe e l’unico pezzo che conoscevano era un rap».

Regista e produttrice («mi piace, perdo qualche giorno a compilare i moduli per il ministero e i bandi internazionali, ma almeno ho tutto sotto controllo»), Laila Pakalnina ama vedere i film altrui: «mi piace andare al cinema, sono stata in giuria in Quatar e ne ho visti 52 e mi sono divertita.
Dell’ultimo anno ricordo Anna Karenina, che è giocoso, ma me ne sono piaciuti altri, di generi diversi, senza cliché». Sui film quasi pronti non si sbilancia, solo confessa che le piace lavorare in contemporanea su un film di finzione e un documentario. «Mi fa sentire bene». E sorride.