Pochi registi della generazione degli anni settanta hanno saputo interpretare il proprio ruolo con la radicalità e il rigore di Paul Schrader che proprio in questi giorni compie il suo settantesimo compleanno. Autore di una ventina di film e di un paio di documentari, Schrader è uno dei pochi registi americani in grado di poter essere assimilato a tutti gli effetti alle esperienze e alle procedure del nuovo cinema degli anni sessanta e settanta.

Dopo aver studiato cinema infatti non va da un Corman o nell’officina delle serie televisive per immergersi immediatamente nella bottega e nella pratica registica come hanno fatto praticamente tutti i suoi coetanei a partire da Coppola, Lucas, e così via, ma si dedica ad un’attività critica tanto strenua da arrivare a collimare quasi con la speculazione filosofica. Il frutto di questi anni di lavoro (e della sua educazione calvinista) vede la luce nel 1972 con il saggio, pubblicato in Italia da Donzelli, «Il trascendente nel cinema: Ozu, Bresson, Dreyer». Un volume nel quale l’elemento religioso, scrive nella prefazione «costituisce una via (un tao, nel senso più ampio del termine) di accostarsi al trascendente che varia di volta in volta, mentre la finalità e i metodi rimangono nella loro essenza gli stessi». Questa è in qualche modo già una risposta alla domanda che molti negli anni seguenti, finiranno per porgli: dove e come ritrovare l’elemento trascendentale in una produzione in cui si andavano ad affastellare film molto diversi tra loro? Da questo punto di vista

Schrader si differenzia dai registi europei o sudamericani della sua generazione, sia per l’attività critica che quella successiva di sceneggiatore, dando vita a un corpus che guarda in modo chiaro verso l’Europa. Per entrare meglio nel mondo di questo regista può tornare utile leggere il volume curato da Alberto Castellano e appena uscito nella collana «Mimesis cinema» a cui partecipano anche sodali e fondatori di Alias: «Paul Schrader. Il cinema della trascendenza» (pp.197, euro 18). La ricchezza di questo apporto plurale di studiosi e critici ben si attaglia all’esperienza di Schrader e alla sua opera che probabilmente conviene smettere di pensare come un tutto unico e monolitico ma come un diagramma attraversato da linee di forza, queste sì capaci di migrare dalla scrittura saggistica a quella filmica a quella sul set. In questo modo si potrebbe anche iniziare a capire cosa ha rappresentato negli anni successivi e fino ad oggi quel saggio così importante sul trascendentale nel cinema.

«Più che una scrittura per attingere una dimensione spiritualistica, dunque, – scrive Vito Attolini- si tratta di uno stile che ha per fine quello di oltrepassare le parvenze esteriori, di un ’osservatorio’ per guardare al di là del reale così come si manifesta nella sua concretezza». Dall’indagine sui tre giganti della trascendenza Schrader non si porta dietro uno stile, un bagaglio di risorse tecniche o, in altre parole una possibilità di guardare il mondo ma un atteggiamento morale, un modo di osservare e rappresentare. Ecco risolta anche l’apparente antitesi tra uno studioso che parla di trascendenza e un regista che filma i «lavoratori della notte» della trilogia costituita da Taxi Driver, American Gigolò e Lo spacciatore. Una trittico che ci ribadisce come, osservato dalla visuale delle linee di forza anziché di una impossibile unità poetica e stilistica, non ci sia soluzione di continuità tra le varie «scritture» schraderiane. «Ho imparato molte più cose sugli americani viaggiando in taxi che sgobbando sui libri di scuola» dice il senatore Palantine a Travis Bickle in Taxi Driver.

Una frase che torna molto utile per capire l’atteggiamento che ha attraversato la carriera di questo regista felice di immergere il proprio sguardo nella realtà, facendo della ricerca di verità un’ossessione tanto profonda da investire la carne dei suoi personaggi, investiti dalle contraddizioni di un sistema che non tollera chi vuole tirarsene fuori per recuperare tutto ciò che ha perso negli anni che il suo cinema non mostra mai. Il passato, gli anni apparentemente felici dell’insider sono qualcosa che ora riemerge come ferita o come shock. Il Vietnam, la droga, il sesso a pagamento dei tre film sopraccitati…Cercare la verità, conoscere come sono andate davvero le cose porta alla rovina, è difficile pensare alla salvezza per Schrader, si può uscirne vivi, questo sì, ma il prezzo è altissimo. Basti vedere Blue Collar (1977), dedicato ad un gruppo di operai di Detroit alle prese con una rapina da 600 dollari dalle casse del sindacato operaio, salvo poi accorgersi di ben altre malefatte e di ben altri buchi operati in quei torbidi anni post-Watergate alle spalle della classe operaia.