Cos’è il cinema americano? È lo spazio in cui si produce gran parte del nostro immaginario. Il n.40 della rivista Fata Morgana (diretta da Roberto De Gaetano) , appena uscito per Pellegrini editore, prova a dimostrarlo, sia interrogando noti registi (in ordine alfabetico, da Amelio a Wiseman) su quello che per loro è il più grande film americano di tutti i tempi, sia, soprattutto, impegnando i redattori a identificare «l’America in un film». Gli approcci sono naturalmente differenti, ma il quadro che ne risulta è coerente, basato com’è su alcune idee-guida che ci pare di aver individuato.

Nel film Ed Wood, girato nel 1994 da Tim Burton, a un certo punto appare Orson Welles (interpretato da Vincent D’Onofrio) che si lamenta con Wood (Johnny Depp) perché i produttori vogliono imporgli Charlton Heston nella parte del poliziotto messicano. In effetti, sembra una scelta di miscasting. A maggior ragione, il pezzo che Roberto De Gaetano dedica a Touch of Evil (L’infernale Quinlan) coglie nel segno, quando tratteggia la forza primordiale del personaggio Quinlan rispetto alla razionalità di Vargas. Sembra, cioè, che il vero «messicano» sia Quinlan, o che comunque lo sia molto più dell’altro. Il personaggio Quinlan «crea gli eventi», fa un uso spregiudicato della legge e falsifica le prove, ma è guidato da un istinto infallibile nell’identificazione dei colpevoli. L’istinto lo porta a non fermarsi davanti a niente, ossia non solo a fabbricare prove false per incastrare i colpevoli, ma perfino a fabbricarne di false ai danni degli innocenti (per esempio la moglie di Vargas) che potrebbero intralciarlo.

Orson Welles, scomodo enfant prodige, viene presto emarginato dai suonatori d’organetto di Hollywood, ma qui è il punto: malgrado tutto, un film come Touch of Evil si ricollega a Melville (anche tramite Rosebud), dunque all’immaginario americano, alla galleria dei suoi personaggi romanzeschi, più forti del romanzo stesso (non a caso anche Gianni Amelio lo indica come miglior film americano).

Tra questi esponenti bigger than life , trova posto ovviamente Noah (John Huston), come personaggio, come attore e come regista. Francesco Ceraolo, a proposito di Chinatown (diretto da Roman Polanski e sceneggiato da Robert Towne), scrive che Noah incarna il destino tragico cui nessuno dei personaggi riesce a sfuggire: Gittes, il detective (Jack Nicholson) fa del suo meglio per opporsi, ma il ruolo creativo è quello di Noah, criminale e incestuoso. C’è dunque anche in Chinatown l’accenno alla fondazione della potenza americana come opera infernale, e al tempo stesso lo sviluppo dell’altro tema-chiave, ossia quello dell’ambiguità dei ruoli sessuali, in senso opposto alla loro omologazione hollywoodiana classica: Katherine è contemporaneamente «figlia e sorella» di Evelyn (Faye Dunaway). Evelyn muore, e non c’è modo di strappare Katherine al suo destino. Ricordo qui che sull’ambiguità dei ruoli sessuali si sofferma anche Jean-Loup Burget a proposito del George Cukor di Sylvia Scarlett.

Altro personaggio smisurato quello di Jack La Motta in Raging Bull, di cui si occupa Emiliano Morreale. Non solo Jack (Robert De Niro) rappresenta l’essenza del pugilato come bestiale «capacità di incassare», ma Scorsese fa un film che, parlando di boxe, racconta il martirio e l’espiazione d’un uomo. Cosa deve espiare Jack? Soprattutto il suo non-capire, non capire le donne, non capire chi veramente lo ama.

Scorsese era in un momento di grave crisi, preda d’una fortissima depressione, e la sceneggiatura di Paul Schrader fu per lui una vera e propria ancora di salvezza. Per immedesimarsi meglio nel ruolo, De Niro si sottopose a sacrifici inenarrabili, accettando che il suo corpo d’attore fosse deformato dall’aumento finale di peso. La Motta boxa con l’ombra, ma quest’ombra pesante è lui stesso. (Si noti che Toro scatenato è scelto anche da Paolo Sorrentino come miglior film americano).

Analogamente, Massimo Donà considera paradossalmente Django Enchained di Tarantino come un film «in bianco e nero», fatto di contrasti parossistici, dove il tema della schiavitù si intreccia con quello della guerra civile.

Impossibile, qui, dare conto in modo adeguato di tutti i contributi. Limitiamoci a dire che al tema del personaggio bigger than life si accosta quello del mito. Scrivendo di Un uomo tranquillo, Alessandro Canadè caratterizza l’Irlanda di John Ford come luogo mitico della libertà, in contrapposizione all’inferno americano che John Wayne si è lasciato alle spalle; e Marcello Walter Bruno considera addirittura Duel di Spielberg come uno studio sull’antropologia automobilistica americana, con l’aggressività che ne consegue.

Scrivendo di Cantando sotto la pioggia, della danza, della coreografia come linguaggio del corpo in movimento, in fondo anche Daniele Dottorini privilegia un approccio che va oltre il puramente narrativo e sottolinea giustamente la capacità del cinema americano, e del musical in particolare, di creare «mondi altri».

Si dovrebbe comunque parlare a lungo (lo impedisce lo spazio) di tutti i contributi, variamente interessanti. Ci limitiamo a ricordare, in chiusura, i problemi relativi al rapporto tra serialità e cinema come «forma breve», sollevati da Pietro Montani nel suo scritto a proposito di The 15:17 to Paris (Attacco al treno), il film di Clint Eastwood, considerato come esempio di felice connessione tra fiction, documentario e gioco sulla temporalità.