Come sa qualsiasi studente di liceo, diceva Kant che c’erano solo due cose che riempivano il suo animo di «ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse», e una delle due era quello che oggi chiameremmo il cosmo. Ma gli occhi con cui il grande filosofo di Königsberg osservava il cielo stellato più di 200 anni fa erano senza dubbio assai diversi da quelli con cui lo osservano oggi gli astronomi e i cosmologi di tutto il mondo.

QUESTA SETTIMANA è stata pubblicata una batteria di 26 articoli scientifici, che coinvolgono più di 400 scienziate e scienziati di 25 istituzioni scientifiche in sette paesi, sulla Dark Energy Survey, una specie di cartografia dell’«energia oscura» (che secondo i cosmologi è responsabile dell’espansione accelerata dell’universo), basata su 758 notti di osservazione di ben un ottavo della volta celeste. I dati pubblicati questa settimana si riferiscono ai primi tre dei sei anni che è durato il progetto, e si basano su 226 milioni di galassie. È un numero di oggetti da capogiro, anche se solo una piccola percentuale di tutte le galassie che si stima esistano (circa 2mila miliardi): per la cronaca, e per togliere ogni tentazione di superbia antropocentrica, ogni galassia può essere costituita da centinaia di milioni di stelle.

Ma l’oggetto di questa survey, effettuata grazie a una fotocamera della bellezza di 570 megapixels montata sul telescopio Víctor Manuel Blanco di 4 metri di diametro, nell’Osservatorio Interamericano di Cerro Tololo, in Cile, non sono in realtà né le stelle, né le galassie, ma tutto quello che invece non vediamo: la materia oscura (che tiene insieme le galassie) e, appunto, l’energia oscura, che insieme costituiscono il 95% dell’universo. Se ci si pensa, è sconcertante: in pratica, tutta la materia che conosciamo e possiamo immaginare, le stelle, i pianeti, ogni elemento della tavola periodica, tutto insieme questo forma solo un ventesimo della realtà. Sul resto, che sappiamo deve esserci perché altrimenti i nostri modelli cosmologici non reggono, abbiamo solo qualche idea vaga e molti interrogativi.

La Dark Energy Survey ha come obiettivo proprio quello di dare qualche risposta su come è fatto l’universo a grande scala, almeno negli ultimi sette miliardi di anni, e confermare o smentire se l’idea che ce ne siamo fatti regge alla prova dei fatti.

E, PIÙ O MENO, REGGE: la distribuzione della massa osservata su questo campione enorme di oggetti cosmologici è in linea con le osservazioni precedenti, soprattutto con quelle del satellite dell’Agenzia spaziale europea Planck, i cui dati avevano misurato precisamente la radiazione di fondo dell’universo com’era «solo» 400mila anni dopo il Big Bang, avvenuto circa 13 miliardi di anni fa. Le piccole fluttuazioni di questa radiazione indicano come la materia si è poi distribuita nell’universo nel corso della sua evoluzione. La radiazione di fondo infatti non è proprio uniforme, ma è come un foglio rugoso: da lontano sembra uniforme, ma se ci passiamo il dito sopra presenta irregolarità. La survey ha osservato che la materia è leggermente meno grumosa di quanto previsto, anche se non è ancora chiaro perché.

Fra gli scienziati coinvolti, tre degli autori principali di diversi degli articoli scientifici pubblicati questa settimana sono italiani: Giulia Giannini, dottoranda dell’Istituto di fisica delle alte energie (Ifae) di Barcellona, Marco Raveri e Marco Gatti, entrambi postdoc dell’università della Pennsylvania. «È stato come se nel 1300 ti avessero consegnato una mappa dettagliata della terra», racconta Gatti al manifesto. «È la cartografia della materia oscura, che non possiamo vedere, più grande e dettagliata disponibile: io sono stato il primo a vederla completata, e in quel momento mi ha tolto il respiro», spiega.

Gatti, Raveri e Giannini sono molto giovani, e nonostante questo sono gli autori principali di alcuni di questi articoli che segneranno una svolta non solo nella cosmologia, ma anche nelle loro carriere: «si tratta di una collaborazione da sempre aperta ai ricercatori più giovani», dice questo 31enne di Albissola Marina (Savona). Il compito di Gatti e dei suoi colleghi è stato quello di ideare un algoritmo statistico capace di valutare, grazie a un fenomeno relativistico dovuto al fatto che la concentrazione di materia devia la luce (noto come «lente gravitazionale debole»), la distribuzione delle masse lungo la nostra linea di vista, cioè la ragnatela cosmica lungo la quale si distribuiscono gli ammassi di galassie e la materia.

INOLTRE HA CREATO il catalogo di tutte queste galassie e misurato i loro parametri fisici e infine, assieme a Giannini, ha ideato un metodo statistico affidabile per stimarne le distanze senza doverle misurare individualmente.
«Ma per fare tutto questo ci vogliono potenze di calcolo enormi, 40 milioni di ore di CPU dei supercomputer più potenti del mondo», osserva Gatti.

Ai tempi di Kant non era neppure chiaro che il sole fosse una delle stelle, né che formasse parte di una galassia, né – meno ancora – che potessero esisterne delle altre. Il ventesimo secolo è stato quello in cui si è scoperta l’espansione dell’universo, e la radiazione cosmica di fondo, la firma inequivocabile di un Big Bang. Ma il cosmo del 21º secolo si annuncia ancora più promettente per l’«ammirazione e venerazione» dei cosmologi: oggi si possono misurare parametri cosmologici con una precisione inimmaginabile anche solo 20 anni fa, e possediamo infrastrutture informatiche capaci di gestire moli impressionanti di Big data.

«SIAMO ENTRATI nell’era della cosmologia di precisione», riflette Gatti. «È più difficile fare scoperte mozzafiato, è tutto più lento, lo sforzo cooperativo di centinaia di ricercatori in tutto il mondo è ingente. Ma i progressi, anche se minimi, sono fondamentali, e, proprio come al Cern per la fisica delle particelle, ci permetteranno di ridisegnare i modelli di come funziona l’universo. Per ora il modello cosmologico standard sembra tenere: ma non metterei la mano sul fuoco che fra 10 anni sia ancora così».

 

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SCHEDA. Samantha Cristoforetti comanderà La Stazione Spaziale Internazionale

Samantha Cristoforetti sarà al comando della Stazione Spaziale Internazionale. Accadrà nella primavera del 2022, come annuncia l’Agenzia Spaziale Europea, nell’ambito della «Expedition 68» a bordo di una capsula Crew Dragon di SpaceX. Nella missione saranno con lei anche gli astronauti Nasa Kjell Lindgren e Bob Hines.
Terza donna al mondo a guidare la Stazione Spaziale Internazionale, dopo due colleghe di nazionalità americana, sarà la seconda astronauta di origine europea (il primo è stato Frank De Winne). Il comando della Stazione era già stato in precedenza affidato all’italiano Luca Parmitano («Expedition 61»), vero è che nel caso di Cristoforetti, nata a Milano nel 1977 e dal 2015 ambasciatrice Unicef, si tratta di una prima volta, nella congiunzione di «donna europea», in questo senso arrivano le congratulazioni da parte di Palazzo Chigi che ha consegnato i propri entusiasmi ai social. La sua nomina «è un’ispirazione per un’intera generazione che sta concorrendo per entrare nel corpo astronauti dell’Esa», ha dichiarato il direttore generale dell’Esa Josef Aschbacher. E anche lei stessa dichiara di essere «onorata» della convergenza di scelte sul suo nome, già ampiamente riconosciuto, la responsabilità di rappresentanza che le viene conferita. «Sono onorata – aggiunge l’astronauta – della mia nomina alla posizione di comandante e non vedo l’ora di attingere all’esperienza che ho acquisito nello spazio e sulla Terra per guidare una squadra molto competente in orbita».
Della sua competenza internazionale avevamo già consistenti conferme, astronauta ingegnera e aviatrice, tra il 2014 e il 2015, Samantha Cristoforetti con la missione Expedition 42/ Expedition 43 è stata nello spazio per 199 giorni, raggiungendo così il record europeo (e il record femminile) di permanenza in un singolo volo. (red. cult.)