Se un extraterrestre dovesse farsi un’idea di chi siamo guardando i programmi televisivi, penserebbe che non facciamo altro che mangiare e cucinare. Le reti traboccano di trasmissioni sul cibo: Masterchef in varie declinazioni geografiche, La prova del cuoco, Bakeoff, Unti e bisunti, Hell’s kitchen, Camionisti in trattoria, 4 ristoranti, Cucine da incubo, Cortesie per gli ospiti, Best bakery, Il boss delle torte, Chef per un giorno, Cucina con Ale, Cuochi d’Italia, Cuochi e fiamme, Little big Italy, I menù di Benedetta, Pizza hero, A cena da me, sono solo alcuni dei programmi. Il fenomeno è iniziato nel 2000 con La prova del cuoco (su Raiuno) che riprendeva un format della BBC, per poi espandersi in modo endemico di anno in anno, di rete in rete, di ora in ora, tant’è che in qualunque momento della giornata si accenda la tivù, si incappa in qualcuno che spignatta.
Il suddetto extraterrestre penserebbe che siamo ben strani perché ci accontentiamo di guardare qualcosa che andrebbe annussato e mangiato, escludendo l’esperienza di gusto e olfatto. Chi entra in scena a questo punto? Il giudice e/o esperto, spesso cattivissimo, a volte perfido, che governa il suo regno con disciplina militare, almeno in tivù, trasformando un mestiere che dovrebbe dare piacere in una sottomissione al suono di «Sì chef. Subito chef» perché, evidentemente, essere duri fa audience.

IL GIUDICE/ESPERTO esercita poi il potere assoluto assegnando punteggi, premi, classifiche, vittorie e sconfitte. Veniamo sollecitati a identificarci con un’esperienza, per poi essere spinti a fidarci di altrui papille gustative che, sebbene di tutto rispetto, non sono le nostre.
Che cosa resta, a questo punto, allo spettatore? O si limita a immaginare, o va a mangiare in un ristorante stellato, sempre che si possa permettere di spendere da 140 a 180 euro a persona, bevande escluse. Se ha il portafoglio più magro, può optare per i ristoranti dei camionisti resi famosi da chef Rubio, a patto di avere fegato e stomaco solidi e non essere vegetariano. La terza alternativa è provare a riprodurre i piatti visti in tivù e qui si apre l’orizzonte della pratica. Sospetto che sia anche in virtù di questa mania collettiva che i costruttori di cucine hanno messo sul mercato postazioni sempre più performanti, arredi sofisticati e corredati di attrezzature di ultima generazione con forni multifunzione, abbattitori, estrattori, robot e quant’altro. La cucina a certi livelli è un’arte che richiede conoscenza di tecniche e materie prime, studio, esperimenti, fantasia, tempo, dedizione ed esperienza.

E POI c’è l’artigianato che non è da meno, ma se la tira molto di meno. Se penso alle resdore della mia infanzia, sapevano cucinare con tre pentole, due padelle, un colino, una ramaiola, un mestolo, un frullino a mano e poco altro. I piatti non erano sofisticati, ma com’erano buoni i minestroni, gli arrosti, gli anolini e i tortelli della nonna. E chissà come faceva a tirare una sfoglia lunga quattro metri solo con il mattarello o a rendere lo zabaione come una spuma con una banale forchetta. Da lei, per scelta e pigrizia, non ho imparato nulla, ma ho tenuto una delle sue scosalette. È bianca e sulla pettorina ha scritto «Cantine cav. Bergamaschi. Samboseto (PR)». Gliel’aveva regalata il fornitore di vini dell’osteria che gestiva e direi che è l’antitesi della spettacolarizzazione del cibo in tivù. Per questo la tiro fuori quando mi va di cimentarmi in cucina, anche se so che dragonessa dei fornelli non diventerò mai. Ci vuole ben altro che una scosaletta a rendere un cuoco indimenticabile.

mariangela.mianiti@gmail.com