C’è un aforisma famoso che recita: passiamo la seconda metà della nostra vita a cancellare i danni che l’educazione ha fatto nella prima. Ed è tanto più vero nel campo dell’alimentazione. Basti pensare alla farina bianca raffinata presentata all’inizio della sua storia come la soluzione più genuina mentre era il trionfo della sua povertà nutritiva oltre che stimolo di troppe malattie.

È indubbio che di cibo, ma soprattutto di cucina, non si è mai parlato tanto, con il rischio di produrre, è la parola, «indigestione» sull’argomento. Ma non solo: viene il sospetto che parlare spesso a vanvera di cucina e ricette abbia il compito di confondere, di riunire le cose in un indistinto dove non c’è più qualità ma quantità. Non a caso, il cibo e la cucina vengono estrapolate dall’argomento principe che è la «nuova agricoltura» di qualità e dallo scontro che essa mette in atto. Uno scontro che non è solo di cultura o di educazione ma di classe. È per questo che il retroterra produttivo del cibo, con tutte le sue contraddizioni, resta sempre sullo sfondo, con qualche nobile eccezione ovviamente (pensiamo allo Slow Food di Carlo Petrini e pochi altri). Ma chi davvero riesce a farci appassionare al cibo e alla sua storia e trasformazione, è Michael Pollan di cui Adelphi ha pubblicato Cotto, un corposo volume (pp. 510, euro 28) che rappresenta la terza tappa dello scrittore americano nel regno dell’alimentazione.

Sempre Adelphi editò, negli anni scorsi, Il dilemma dell’onnivoro, analisi coraggiosa sulla qualità del cibo e i trucchi dell’industria alimentare, e In difesa del cibo, saggio fondamentale che smonta le sostituzioni chimiche delle sostanze (assunzione di vitamina C al posto delle arance, ad esempio) con il cibo e la sua preparazione. «A partire dalla visita al supermercato, l’industria alimentare ci ha abilmente divisi, promuovendo verso ciascun segmento demografico della famiglia un diverso tipo di cibo, così da vendercene il più possibile: l’individualismo, molto più della condivisione, fa sempre il gioco delle vendite». Pollan interprende un viaggio alla riscoperta dell’autonomia perduta, anche e soprattutto in questo campo, a causa delle chiacchiere vendute dal neocapitalismo del boom post seconda guerra mondiale. Una sequela di distruzione del cibo genuino per compiacere mercati famelici, e moltiplicatori di malattie.

In quest’ultimo volume, Pollan si dedica al rito della cottura. Lo fa in modo intrigante, aprendo squarci sempre nuovi sul rapporto tra cibo e salute, con una ricerca radicale (ma anche ironica) della genuinità. E di un modo alternativo di concepire il rapporto col fuoco e con l’acqua, con l’aria e la terra, e di vivere sostanze e cucina, cottura e fermentazione a contatto col miracolo della natura.