La storia del nostro paese – scrive Maraini in Sulla mafia. Piccole riflessioni personali (2009) – è fatta di orribili ombre, ma anche di piccole bellissime luci»: sono luminose le donne raccontate dalla scrittrice, che escono da condizioni limitanti di sofferenza e sopraffazione conducendo ad effetto la trasformazione di sé in soggetti autodeterminati e ribaltando a proprio vantaggio condizioni sfavorevoli. E qualche piccola luce Maraini accende persino nella restituzione letterario-autobiografica di una delle condizioni più terribili in cui un essere umano possa trovarsi: la prigionia (Bagheria, 1993).
È come se il suo pensiero non permettesse il permanere di una tragedia senza almeno adombrare un’idea di riscatto, se non il riscatto tout court; né sembra esistere situazione tanto orribile da impedire l’ipotesi di almeno un conforto, un sollievo, una consolazione. Internata con i genitori in un campo a Nagoya, in Giappone, dove la famiglia rimase due anni, fino a guerra conclusa, perché entrambi i genitori si erano rifiutati di firmare per la Repubblica di Salò, più che la paura delle bombe, più che i terremoti e le malattie, era la fame il maggiore tormento.

SI MANGIAVANO formiche, serpentelli, topi: «quando si ha fame – dice – si è portati a mangiare qualsiasi cosa». La fame è consanguinea della «cugina idiota», la morte, così presente da rendere la bambina «pronta a perdere la vita come si perde un dente». La piccola Dacia gioca con le pietre, che la sua mente trasforma in pane, pasticcio di carote, banana, a seconda della struttura, perché «a volte ci si sfama anche con gli occhi». Nel campo, Dacia sente parlare della Sicilia: «Più che altro si parlava di cibi, dalla mattina alla sera, per soddisfare con la fantasia quella fame che ci prosciugava la saliva in bocca e ci rattrappiva le viscere. «Ti ricordi la pasta alle melanzane che si mangiava a Palermo? Con quelle fettine nere, lucide, sommerse nel pomodoro dolce».… «Ti ricordi le sarde a beccafico, arrotolate con dentro l’uvetta, i pinoli, quella tenera polpa di pesce che si sfaldava sulla lingua?». «Ti ricordi i ’trionfi di gola’ che si compravano dalle suore …». Ed è nel campo che la piccola Dacia, nel ricordo dell’adulta, capisce il rapporto fra «il cibo e l’immaginazione magica. È la carenza che fa galoppare i sensi e trottare la fantasia». La capacità di rappresentarsi il cibo, che alla «mia immaginazione bambina appariva come una delle meraviglie del paradiso perduto», è una delle piccole bellissime luci che hanno lenito la disperazione di quei due anni. Forse un po’ anche quella della madre, che vedeva negli occhi degli uomini affamati «una luce di ossessione cannibalesca quando si fissavano sulle carni tenere della figlia più piccola, di un anno appena».
Esperienza che segna per la vita (per anni Maraini confessa di avere nascosto il pane quando avanzava, «come i cani»; e «ancora oggi – scrive – quando vedo una bella vetrina piena di cibi, mi fermo affascinata a guardare») e che ritorna letterariamente. Nella fame compagna perenne di vita di Teresa delle Memorie di una ladra (1972): è una «fame nera, avvelenata», una «fame speciale, una fame tremenda», e tuttavia essa non diviene mai pretesto per tradire i compagni di strada, ladri anch’essi e truffatori.

TANT’È CHE TERESA, anche nei momenti di maggiore disperazione, non ascolta le lusinghe dei carcerieri che le darebbero cibo migliore in cambio di una sua confessione: ha una sua morale di fondo la donna, che non le permetterebbe mai il tradimento. Piuttosto patire la fame. Mentre nelle Lettere a Marina (1981) ci troviamo di fronte a una forma di fame erotico-amorosa: già nella prima delle lettere, compare bene in vista il collo dell’interlocutrice amante nel quale sono stati piantati i denti della divoratrice destinataria del carteggio. Una vicenda di possesso, in cui l’eros e la gelosia suscitano fantasie di ingordigia: divorare e farsi divorare, suggere i succhi del corpo dell’altra e desiderare di farlo a pezzi costituiscono la dinamica di questo racconto epistolare che è una storia di potere giocato sulla metafora del cannibalismo.
Perché la fame, in Maraini, è anche metafora, è «fame… per ogni lettura», dal momento che lei stessa si definisce una «forsennata lettrice»: «e divoravo tutto quello che mi capitava fra le mani», scrive.
Se dalla fame passiamo al cibo, molto ci sarebbe da dire, a partire dai codici alimentari usati dalla scrittrice (pensiamo alla raccolta di versi Mangiami pure, 1978) e da alcune funzioni metanarrative del cibo (leggere come bere un buon vino, ad esempio, in Ho sognato una stazione. Gli affetti i valori le passioni. Conversazione, 2005), fino all’astinenza dal cibo nella forma del digiuno di Chiara d’Assisi. Elogio della disobbedienza (2013).

MA VORREI CONCLUDERE con una antitesi alla fame, o una modalità di metterla a tacere, l’«abboffarsi», che Maraini non ama («Non sono una mangiona. Non mi piace abboffarmi. Sono parca nel nutrirmi» (Il ricordo della fame, 2015), e che infatti in La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990) diventa atto significante della limitatezza intellettuale del marito-zio di Marianna, il quale possiede un cervello che assomiglia alla bocca: «trita, scompone, pesta, arrota, impasta, inghiotte. Ma del cibo che trangugia non trattiene quasi niente».