Immettiamo dentro di noi cibo e parole innanzitutto e stupisce quanto poca importanza tendiamo dare al primo rispetto alle seconde. Accettiamo non curanti molto cibo variamente manipolato mentre le parole non vere disturbano e feriscono.
Dovremmo porre molta attenzione al cibo perché ci costituisce e ricostituisce. Ci può curare o ammalare. E la questione non riguarda solo noi, ma anche coloro che producono per noi, gli animali come sono allevati e le campagne e le montagne tutte, ovvero la terra e l’ambiente che genera il cibo che mangiamo e l’industria che lo trasforma.

Si muore precocemente per poco cibo, si muore male per troppo o per cattivo cibo. È una vergogna che ancora oggi quasi un miliardo di persone rischi la morte per fame e al contempo le terre coltivabili e fertili si riducano sempre di più a causa del cambiamento climatico che provochiamo noi con molta indifferenza e di uno sfruttamento intensivo.
Rimane anche incomprensibile come nel XXI secolo molta agricoltura così come molta trasformazione di cibo sia caratterizzata da insostenibili ed ingiustificabili input fossili tra cui fertilizzanti, erbicidi e pesticidi di sintesi e additivi, conservanti, aromi che nulla hanno a che fare con ciò che nutre e che fa bene.

E tanto meglio non se la cava chi la terra la lavora: divisi fra gestori a contratto e imprenditori agricoli che operano intensivamente e su grandi appezzamenti, spinti a massimizzare la produzione per un prezzo sempre più competitivo e infine molti, molti contadini in lotta per l’autonomia e la sopravvivenza in un contesto crescente di privazione e dipendenza.

Ma la Terra non è solo substrato superficiale coltivabile, omologabile a primo fattore di una catena produttiva a cui seguono energia, forza motrice, unità di lavoro impiegate, mezzi finanziari, etc.

LA TERRA ESTRAPOLATA dal territorio al quale appartiene si fa mero strumento produttivo per rifornire mercati e luoghi che non conosce, misurandosi spesso con sleali e crescenti competizioni che la vedono infine sempre perdente.
Ma se la Terra si lega al territorio e le si conferisce l’importanza che merita per la sua interazione, attraverso l’agricoltura, con la natura, essa riacquista un ruolo fondamentale nei processi produttivi e nelle sue correlazioni con gli altri settori dell’economia, con la comunità, con l’ambiente.

L’impresa agricola integrata con il territorio, accorta nel suo bilancio agro-ecologico, diventa promotore di ambiente sano, cultura e conoscenza del pianeta, cibo salubre. Centro di un’economia che porta ecologia e sani stili di vita, contamina positivamente gli altri settori. Restituisce valore.

Perché questo possa attivarsi è necessario che una parte delle sue produzioni siano comprese e valorizzate nel proprio territorio e per quanto possibile, le materie prime che ne derivano vengano trasformate non troppo lontano.
La moderna agroindustria spesso delocalizzata rispetto all’origine delle materie prime, preda di un gigantismo autogiustificato per fronteggiare (e riprodurre) una competitività senza fine, potrebbe sperimentare una nuova fase, quella di «fabbriche diffuse» sui territori rispetto gli attuali sempre più ipertrofici grandi impianti. Almeno per le produzioni di base, in grado di dare valore alle peculiarità locali qui intese come preservazione e rispetto della salubrità dell’uomo e di quello specifico ambiente che una agricoltura ed allevamento realizzati su scala non industriale possono offrire.

E per creare know how e valore aggiunto. Anche questi diffusi.

Un’agricoltura e una produzione di cibo rivolte non a un mercato indistinto e lontano, che abbisogna di un marketing distraente e confondente, ma alle persone delle comunità più vicine. Poi anche a quelle lontane, ma sempre considerate persone e non mercati.
Una visione di questo tipo, di vicinanza alle esigenze della comunità a partire da quella più prossima, cambierebbe anche di molto modelli e pratiche colturali: se conosci per chi produci e diventi suo amico presti più attenzioni perché il tuo prodotto diventa contributo al bene-essere di tutti.

TUTTO QUESTO È ALLA BASE di quelli che in Italia chiamiamo bio-distretti, aree geografiche piccole o grandi non importa, ma coerenti nel progetto d’insieme che pongono l’agricoltura al centro di un nuovo processo di sostenibilità ambientale e sociale. Processo che si fonda sull’interazione più attiva possibile di tutti i diversi settori dell’economia, dall’industria al turismo, alle istituzioni, alla scuola, alla cultura e al mondo associativo, stimolando un forte ruolo partecipativo e di riappropriazione dei beni che un determinato territorio può offrire. Che non sono solo l’acqua, la terra, le campagne, i fiumi, le strade e le piazze ma le economie e i servizi indispensabili a una vita decorosa e ricca di senso.

Recuperare e rigenerare le funzioni e gli utilizzi di campagne come dei quartieri e delle piazze dovrebbe diventare il centro di una rinnovata visione creativa e innovativa, fondata sul buono, sano e bello.

IL RUOLO DI NUOVI CONTADINI, di imprenditori della natura che con la natura scambiano (non prendono), assume così il compito di miglioramento qualitativo dei territori che sono i territori di tutti.

La qualità dei terreni e il loro governo, le modalità di allevamento, le varietà delle piante coltivate, della manodopera coinvolta, dei sistemi di irrigazione come degli strumenti di precisione e il digitale vanno riletti, modulati e mirati verso la costituzione di un patrimonio\capitale ecologico sociale e culturale che non appartiene ma viene gestito.

UN TALE PROCESSO non è pensabile diviso in filiere autonome e separate, ma in un coinvolgimento di comunità e a favore della comunità, dei quali i produttori sono parte. L’abbandono di molte Terre è la conseguenza dell’estinguersi di comunità e i nuovi contadini hanno qui un ruolo formidabile.

Devono essere messi in condizioni di operare!

La capacità di sviluppare e organizzare processi collaborativi e cooperativi inclusivi di mondi diversi diviene la chiave fondamentale di successo per una differente produzione di beni e servizi.

SE IL 1900 È STATO anche il secolo della cooperazione, una cooperazione essenzialmente fra uguali, ovvero gli agricoltori fra loro, gli allevatori di bovini e quelli di ovini fra loro ma separati e lo stesso per gli edili, i tipografici, i pescatori i consumatori ed infine gli apicoltori, il 2000 deve avviare il secolo della cooperazione fra diversi, trasversale (per ruolo, funzione, capacità, etc) fra tutti coloro che hanno a cuore un obiettivo più alto che ha al suo centro equità e convivenza, con la natura ed il pianeta, il vivente tutto.

E il cibo, quello che tutto e tutti mette in relazione, ritorna ad essere bisogno sociale e primario insieme.