Un sorriso luminoso quello di Subodh Gupta (Khagaul, Bihar, India 1964, vive e lavora a New Delhi) quando riconosce nel nickname della sua interlocutrice il nome dei gustosissimi samosa, popolari stuzzichini indiani. Il cibo (e la sua mancanza) è un tema centrale dell’opera di questo notissimo artista indiano, erede della poetica del ready-made di Marcel Duchamp.
Alla galleria Continua di San Gimignano, dove ha iniziato a esporre una decina d’anni fa, Gupta presenta una serie di nuovi lavori in cui il concetto di accumulo cede il posto a quello di metamorfosi. Il titolo della mostra In This Vessel Lies The Philosopher’s Stone (Su questa nave giace la pietra filosofale, visitabile fino al 28 agosto)- una citazione tratta dagli scritti del poeta e mistico indiano Kabir (1440-1518 ca.) – è anche il fil rouge che lega le opere realizzate in cui vengono utilizzati vecchi utensili trovati e associati a materiali diversi (vetroresina, acciaio, pietra, gesso, bronzo, terracotta).

In opere come «Long Now» sembra esserci una connessione più profonda con la natura. È un modo per affrontare concetti più universali?
Il mio lavoro prende spunto dalla vita quotidiana, basata sulla semplicità. Se guardo indietro alla mia infanzia ritrovo le stesse cose, anche se ora sono qui. Quegli oggetti semplici, come i vecchi utensili da cucina, continuano a interessarmi perché li immagino come qualcosa che va oltre il limite del tempo, anche se non credo in dio. Nel mio lavoro c’è tutto il mio essere indiano, ma quando certe volte dormo di notte all’aria aperta, in un parco o in giardino, come qualsiasi altra persona – bambino o adulto – nell’area più remota dell’India o in qualsiasi altra parte del mondo (Messico, Kenya, Uganda…), guardo la stessa luna, le stesse stelle. È ciò che connette tutte le cose che mi affascina… Come ha affermato molti anni fa anche il matematico e astrofisico inglese Stephen Hawking quando gli esseri umani cercano gli alieni, altri pianeti e nuove cose, la risposta non si trova andandoaltrove, ma guardando nel nostro pianeta terra. Così nel mio lavoro artistico trovo risposte nella mia galassia, nel mio cosmo, nella mia orbita, come quegli oggetti semplici con i graffi e le crepe di Navagraha (Nine Planets). Ogni vecchia padella sembra simile a tutte le altre, ma non lo è affatto. È come il palmo della mano. Non ce n’è uno identico all’altro. Sì, i graffi su una padella sono proprio come le linee di una mano. Ognuna ha la sua storia. È stata usata da molta gente per cucinare e mangiare il cibo in modo felice o triste felicità, sexy, ridendo o piangendo. Quello che faccio è cercare di utilizzare oggetti di uso comune provando a avere un dialogo con la mia natura e il mio universo.

Qual è il rapporto tra il rituale della vita quotidiana e Bollywood, presente nell’immaginario occidentale dell’India?
Bollywood è fantasia. Il cinema mi ha sempre attratto. Ricordo che lasciavo le lezioni a scuola per andare al cinema. Bastava qualche spicciolo per poter entrare all’intervallo senza dover pagare il biglietto. A quei tempi nei film era molto importante il ruolo dell’eroe e dell’eroina che, soprattutto quando si è bambini, erano modelli di riferimento. Il cinema, poi, era l’attività di intrattenimento più importante in India e anche quella più economia e popolare. Ma a influenzare il mio lavoro è stato soprattutto il teatro, per l’aspetto decorativo e la teatralità delle misure. È lì la mia formazione. Ero totalmente preso dal mio piccolo gruppo teatrale che si chiamava Sutradhar, che in hindi vuol dire narratore. La scala monumentale delle mie installazioni proviene dalla scena. Ma non si tratta solo di misure. Ad esempio, quando vidi la chiesa di Santa Maria Maddalena a Lille (Francia), dove ho realizzato l’installazione God Hungry (2006) me ne innamorai subito, ma allo stesso tempo ne fui impaurito. Ero nervoso perché non sapevo come mi sarei potuto rapportare a quello spazio. Lo spazio è esigente, cambia il punto di vista: opera e atmosfera funzionano insieme.

 

Subodh Gupta, Long Now, 2017 -  Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA (ph Ela Bialkowska) (2)
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Quando lei utilizza materiali come l’acciaio inox o l’ottone è implicita una componente riflettente. Hanno un qualche significato?
All’inizio li ho usati per la loro brillantezza, per l’aspetto seduttivo. Ora le cose sono cambiate, ma fino a quindici anni fa l’80% della popolazione del mio paese – tutte le classi sociali – mangiava usando utensili di metallo. Ora si utilizza di più la plastica, la ceramica. Il contrasto era tra l’aspetto riflettente del recipiente vuoto e, appunto, la mancanza di cibo. Infatti molte persone in India non hanno nulla da mangiare. Il mio lavoro si sta trasformando, come del resto sta mutando il clima, si scoprono nuovi pianeti… È ancora basato sulla vita di tutti i giorni, ma quando la quotidianità è sconvolta da eventi come lo tsunami in Giappone, non si può non prenderne atto.

Il cibo, però, rimane sempre un tema centrale…
Sì, amo il cibo. Mi piace mangiare e anche cucinare. Chi viene a trovarmi nel mio studio, potrà assaggiare quel che ho preparato. Nella mia cucina a New Delhi c’è una bella vista sul cielo e sono sempre felice, sorrido quando cucino. Sto realizzando un libro di cucina che sarà pubblicato il prossimo anno. Cucinare è una meditazione. Anche fare la spesa è importante, cucinare comincia da quel momento. Mentre acquisti cibo può cambiare il menu, inserendo qualcosa di previsto. Mi piace molto anche quel momento. Magari aprirò un ristorane! (ride).

Qual è il piatto che preferisce?
All’inizio mangiavo solo cibo indiano, così quando iniziai a viaggiare fu molto difficile per me. Ora, invece, assaggio tutto. In particolare amo la cucina giapponese e coreana, anche quella cinese ma fuori dalla Cina. Quando sono io a cucinare posso prendere una ricetta cinese e prepararla alla maniera giapponese. Mi piacciono le deviazioni. Ho iniziato a cucinare guardando mia madre, ma poi ho trovato il mio stile personale. Lei, come tutte le madri tradizionaliste, non fa che parlare della sua cucina e anche quando io o mia sorella più giovane proponiamo dei piatti trova sempre qualche errore! (ride).

Nel suo modo di cucinare c’è anche uno sguardo che accoglie la tradizione?
È incredibile e nessuno ci crede, ma in Bihar mangiamo la pasta. Ora dico la mia ricetta: è una pasta fatta con lenticchie. Quando il dhal è pronto – non qualsiasi tipo di dhal, ma il masoor dhal mescolato con il moond dhal, fai un impasto di farina che poi stendi e tagli. È molto nello stile della cucina italiana. Fai bollire la zuppa di lenticchie e aggiungi quello che in India chiamiamo tarka, ovvero una mistura di spezie, aromi e verdure, insieme al ghee. Il ghee (burro chiarificato) è molto importante nella nostra cucina, insieme al peperoncino, al cumino… quando bolle ci butti dentro quella pasta. Mangio il Dhal Pitti da quando sono bambino, ma molti indiani non conoscono questo piatto perché appartiene alla cucina tradizionale Bihari. Se però lo lasci raffreddare si rapprende come una torta. Potresti odiarlo se lo mangi quando non è caldo e liquido! Il cibo viaggia, ma nessuno sa come. Un altro piatto che mi accompagna dall’infanzia sono i ravioli di riso ripieni di lenticchie. Niente a che vedere con quelli cinesi, ma che probabilmente arrivano dalla Cina attraverso il confine del Bengala, Calcutta, Bangladesgh e Nepal. Forse, migliaia di anni fa, li ha portati un monaco che non sapeva come comunicare con gli abitanti del Bihar. Oppure qualcuno del Bihar che in passato è andato in Cina, li ha mangiati e ha voluto cucinarli senza sapere come, per cui ha creato la sua ricetta personale. Il cibo è qualcosa di veramente interessante, perché definisce una propria mappa del mondo. Un tipo di meditazione e conoscenza che parla una lingua diversa ad ognuno di noi. Certe volte sembra molto semplice, altre ha una grande forza. Perché, per esempio, solo bollendo una zuppa di miso – senza ancora mangiarla – ci si sente subito pieni di energia, come se ci avessero dato un pugno? Il cibo possiede una sua magia. Io ci credo e lo amo.