Di formazione letteraria e filosofica, e una laurea in lingua e letteratura russa, Roberto Zechini ha in questi anni disegnato una figura di musicista particolarissima nel panorama musicale italiano, di chitarrista improvvisatore e colto di ascendenza jazzistica con una forte vocazione alla contaminazione. Tra i suoi lavori ricordiamo Carla danza in un’altra Romagna (lsdlmusic, RZmusic, 2002), A Deep Surface (notami jazz, 2013), Il chitarreto (RaRa records, RZ music, 2016).

Vivi a Fermo, nelle Marche, e il legame con la natura e i paesaggi fermani viene dai tempi di «Bruto», un disco del 2009 ispirato dai racconti del grande artista Osvaldo Licini, un disco di svolta nel tuo percorso.
Dalla mia prospettiva Bruto è uno dei momenti più significativi del mio percorso artistico e umano. Il «paradosso» di fondo è che non sono di origini familiari marchigiane. Fino all’età di 40 anni non ho fatto che viaggiare, per studio, musica, concerti, vivendo anche in diverse parti del mondo. A 20 anni, dopo la prima formazione, musicale e letteraria, mi sono trasferito a Mosca, poi a Pietroburgo e Friburgo. Ci tenevo tanto a essere quel che ero e che sono: un provinciale con l’universo «nel cuore e nella mente» in testa. Osvaldo Licini (Osvaldo è anche il nome di mio padre), come l’improvvisazione e le discipline musicali, furono un amore bruciante, non un interesse. Grazie a Daniele Garbuglia inciampai in uno dei «personaggi» più interessanti ed estremi dell’immaginario liciniano: Bruto. Era come me: un anarchico antiromantico. Fermo mi richiamò a casa offrendomi la direzione della Scuola Popolare di Musica, che – tra le altre cose – ho guidato per 14 anni. Continuavo imperterrito a condurre la stessa vita professionale, spostandomi di continuo nei Balcani, in Africa, sia a nord che a sud. Ho vissuto anche a Bergamo, eppure Fermo e le Marche diventavano una luce interiore, mio malgrado. Cominciavo a comprendere più in profondità e più intimamente, silenziosamente, lo sguardo delle Amalassunte e le mie origini.

«Ave Terra» è un disco che è cominciato 22 anni fa quando con Daniele Di Bonaventura e Alberto Ricci avete iniziato la vostra avventura musicale, nato da un master del 1998. È un canto alla terra e alla sostenibilità che nasce dalle vostre radici. Come vi siete ritrovati?
Con Daniele e Alberto siamo amici da 40 anni. Quando viaggiavamo in altre zone, scoprivamo che stavamo facendo «gavetta e bottega» con Stern, Henderson, Oxley, Surman, Fewell, Burk, Bratchkova, Avion Travel, Zawinul, Ciammarughi, Zeppetella. Solo per quel che concerne la musica. Di Bonaventura fu il primo, per talento e determinazione, a comprendere che il bandoneòn era una voce, non semplicemente uno strumento, non relegandosi unicamente nella tradizione del tango. Al servizio di questa idea creò il suo suono, il suo mondo. Io stavo cercando la mia voce e detti inizio a una ricerca, che dura tuttora, formando un’infinità di progetti «trasversali» in cui sperimentare il linguaggio della composizione, dell’improvvisazione e del jazz. Ricci era spesso coinvolto su entrambi i fronti. Ave Terra è la fotografia musicale di un viaggio che dura da sempre tra noi, che non si è mai interrotto.
La sostenibilità, nel guazzabuglio che domina il pensiero degli ultimi 50 anni, vorrebbe diventare un nuovo criterio economico di progettazione del futuro sul pianeta di cui siamo ospiti. La sostenibilità è una cultura e la cultura diventa corpo, suono, lingua, passato, presente, futuro. So con chiarezza che suonerà «duro» all’orecchio di molti, ma la sostenibilità è un progetto di pace con la propria morte, non soltanto con la propria vita. La sostenibilità bisognerà viverla, non solo finanziarla. Il disco Ave Terra ha la trasparenza di un film che scorre e racconta il nostro tempo: 22 anni insieme e registrare all’appuntamento con la pandemia. Sapevamo già tutto. È per questo che salutiamo la Terra con «Ave», che significa «che tu stia bene».

Negli anni hai collaborato con molti poeti, scrittori e artisti. La tua formazione, oltre che musicale, è anche letteraria: hai tradotto, curato e introdotto giovanissimo gli scritti del poeta russo Osip Mandel’stam «Poesie per bambini». Parlaci di questo rapporto.
Tutto il mio percorso è «guidato» dalla domanda: cos’è l’infanzia? L’improvvisazione altro non è – dal mio punto di vista – che l’atto di nascita di una lingua pre-linguistica. La poesia, le arti e la scienza si confrontano costantemente con la stessa domanda. Metà della mia discografia è «strettamente» musicale, l’altra metà è intrecciata con gli altri codici. Almeno 40 sono le pubblicazioni musicali nate con Gezzi, Scarabicchi, Raboni, Anedda, Magrelli, De Signoribus, Siciliano, Dondero e tanti altri. Proprio di questi giorni è la notizia che verrà prodotto da Amat Marche Io sono Antonelli, poema musicale in atto unico che ho scritto sul testo di Gezzi Uno di nessuno. Con Ramberto Ciammarughi abbiamo prodotto Prima della verità, poema musicale sulla parola di De Signoribus.

Con il tuo storico ensemble Limanaquequa, con cui hai pubblicato diversi album, hai anche arrangiato e suonato per il regista Giuseppe Piccioni nella colonna sonora del film «Luce dei miei occhi».
Piccioni «inciampò» sui miei dischi e mi chiamò dalla produzione per la colonna sonora, curata da Ludovico Einaudi. Il brano registrato in quintetto è un mio arrangiamento di un pezzo scritto da Di Bonaventura per TRIoBU’ e pubblicato nel 2020. Emulai la presenza di Di Bonaventura affidando il tema principale alla melodica di Jack Rossi e le risposte al trombone di Massimo Morganti.

Hai fondato anche il laboratorio-orchestra «Il chitarreto dei jazzemani» con cui sperimenti la scrittura e le tecniche d’improvvisazione con più di 140 chitarristi-allievi provenienti da diverse parti d’Italia. Di cosa si tratta?
È un laboratorio di improvvisazione arrangiamento e composizione che ho fondato nel 2011 dedicato a questo genere di ricerca e, nel giro di un paio d’anni abbiamo cominciato a fare produzione, concerti, dischi, colonne sonore. Scuole e istituzioni musicali si sono interessate con curiosità al progetto e ci hanno ospitati in contesti più disparati. Adesso le sedi più importanti sono a Fermo e Senigallia per il nord e a Pescara per il sud. Proprio quest’anno sarebbe stato registrato il secondo disco del Chitarreto, ma la Covid ci ha costretti due volte a rimandare. Lo faremo a marzo, con Exit.live e Notami. Sto terminando il libro con tutte le parti dagli inizi a oggi e una dettagliata prefazione metodologica. I padri spirituali che mi affiancano nella curatela di questo progetto sono Umberto Fiorentino, Fabio Zeppetella e Ramberto Ciammarughi, che saranno miei ospiti.

Solo quest’anno hai pubblicato sette dischi, tre sono stati bloccati dalla Covid. Tra questi «Le mani», un progetto di raccolta fondi in favore delle famiglie terremotate colpite anche dall’emergenza pandemica.
In attesa ci sono Ras Lhanut con Elias Nardi, RZ-Il chitarreto dei jazzemani vol. 2 e RZ-Limanaquequa 5et con Gabriele Mirabassi. Quelli usciti sono Le mani, in cui c’è anche Di Bonaventura, The War of the Worlds (sul radiodramma di Orson Welles) con Soundscape’s Activity, RZ Samurai live@rimini, RZ Limanaquequa #3, RZ Jung 4et, tutti col mio quartetto.

 

TENSIONI MULTIDISCIPLINARI
Roberto Zechini è chitarrista, compositore e didatta dell’improvvisazione. Studi accademici musicali (chitarra jazz e arrangiamento per organici jazz) e lauree in Letteratura russa. Ha pubblicato più di 70 lavori discografici, sia nell’ambito strettamente musicale che in quello del teatro, della poesia, della letteratura, fotografia e cinema. Ha suonato nelle rassegne e nei festival d’Italia, RegnoUnito, Francia, Austria, Spagna, Marocco, Macedonia, Serbia, Montenegro, Albania, Croazia, Germania, Sud Africa, Svizzera. Ha pubblicato diversi scritti letterari e critico musicali. È fondatore e direttore de «Il chitarreto dei jazzemani» al Music College di Senigallia e all’Accademia Musicando di Pescara e insegna chitarra jazz, improvvisazione, armonia e laboratorio ritmico ad Arcevia Jazz.