Antonella Cilento nel suo ultimo lavoro, Bestiario napoletano (Laterza, pp. 224, euro 18), racconta di Napoli attraverso il doppio filtro del suo sguardo, quello colto e intelligente di una scrittrice, e la metafora dell’animalità. La scelta non è causale né stravagante. Non solo perché, come scrive, «ogni luogo magico, sin dall’antichità, è abitato da bestie» – e Napoli certamente lo è, magica – ma anche perché gli animali ci dicono cose che strade, monumenti e gli stessi umani non sanno comunicare.
Lo sapevano bene gli estensori dei bestiari medievali, ingiustamente accusati di parlare di animali inesistenti, come l’unicorno, o di mescolare fantasie folkloriche e realtà scientifiche: la donnola concepirebbe per le orecchie e partorirebbe dalla bocca, ad esempio. Eppure gli uomini medievali conoscevano piante e animali quanto e meglio di noi; solo che, per loro, la «scienza» non era necessariamente il vero: il reale era una cosa, il vero un’altra, completamente differente.

Se ogni bestiario medievale racconta la favola che l’orsa dà vita ai suoi cuccioli leccandoli, non è perché all’epoca gli uomini non conoscessero i meccanismi fisiologici, ma solo perché nella loro realtà, finalizzata al miglioramento civile, religioso e morale della specie umana, l’importante era che l’orsa fosse un exemplum di maternità accudente.
Anche il Bestiario di Cilento è attraversato da un anelito civile e morale che fa da sfondo alla narrazione, che è anche analisi: un chiattillo non è solo una piattola, ma diventa un capitolo di sociologia napoletana per illustrare una classe di età che «indica i figli dei veri benestanti, sfaccendati, inutili alla società e a se stessi».
In questo ritratto di città asciutto, dotto, a volte scuro come un’opera di Caravaggio, altre pieno di luce e speranza, si entra nei romanzi e nella letteratura come si imbocca una strada o l’entrata di un palazzo. Talvolta i due ingressi si confondono, e l’antico tracciato della città si sovrappone alle riflessioni di Jean-Paul Sartre, alle Novelle di Miguel de Cervantes o dei testi di coloro che qui abitarono. Siamo nella linea più autentica dello spirito dei bestiari: attraverso gli animali costruire mappe concettuali, fare letteratura, mostrare come funziona la mente degli uomini e quale sia il senso profondo della loro cultura.

Il registro del linguaggio, dalla chiacchierata fatta al bar al racconto noir, dalla barocca ricerca della meraviglia fino ad una Comédie humaine di chi ha letto Matilde Serao, cambia di continuo ad ogni vicolo, piazza, quartiere di Napoli o al mutare della gente, pardon, delle «bestie» che l’abitano. Che non è detto siano vive e respirino. Come gli animali che abbelliscono i vestiti e le stoffe della sartoria del centro «Casa di Alice» a Castelvolturno, centro tessile formato da italiani e africani, dove i secondi hanno colto un’opportunità là dove i primi avevano costruito la camorra. Il villino che accoglie il centro, sottratto alla mafia, era di proprietà di Pupetta Maresca.

Quale animale può simboleggiare i migranti se non le rondini? «Alla fatica di scavalcare montagne e passare mari nessuno bada: le rondini non le mostrano», scrive Cilento. Inoltre, ci viene da pensare, a volte i migranti lasciano i loro corpi senza vita nelle acque del Mediterraneo e anche allora, inaspettatamente, somigliano a rondini.
Ma gli animali delle stoffe di Castelvolturno non vestono più solo ghanesi o nigeriani, visto che anche gli italiani cominciano ad esserne affascinati: non dimentichiamo che quegli esotici disegni sono gli stessi che «hanno insegnato a Picasso cosa fosse la modernità influenzando tutta l’arte contemporanea occidentale».

A pochi chilometri dalla Casa di Alice, altre rondini stanziali hanno vissuto all’ombra di una città imbevuta di luce, come Gustaw Herling, che a lungo abitò a Napoli, dove ambientò il racconto Requiem per il campanaro, il cui protagonista sembra non distinguersi dalle «creature di Anna Maria Ortese, minime e indifese, né umane né animali, solitarie e fragili, vittime di ingiustizia».
In questo continuo scambio di ruoli, anche la donna può essere «una bestia che parla», come la definì la stessa Ortese in Corpo celeste, e quindi finire in un capitolo del Bestiario di Cilento. Una «bestia» che scrive seguendo una lunga tradizione di impegno civico e politico che ha dato capolavori come Il ventre di Napoli o Il mare non bagna Napoli.

Tra gli svariati esseri narrati, non mancano i fantasmi visti o inventati dalla civetta-medium Esaupia Palladino o anche i «purpi» (polpi) e le sirene che dai mosaici paleocristiani saltano nelle tazzine scheggiate dei venditori di brodo di purpo, che una indifferente ed etnocentrica normativa della Comunità Europea ha ridotto orami ad archeologia del gusto, da vivente rappresentazione antropologica che è stata fino a tempi recentissimi.