Andrea Ranieri in La memoria e la speranza. Oltre le macerie della sinistra, pubblicato dall’editore Castelvecchi, con una ricca postfazione di Tomaso Montanari, fa la cronaca puntuale delle imprese politiche della sinistra italiana, a far data dal referendum del 4 dicembre 2016 fino alla presentazione delle liste per le elezioni politiche del 4 marzo 2018. «Quella che leggerete, scrive, è la cronaca di una sconfitta. La sconfitta del tentativo di costruire, alle elezioni del 4 marzo 2018, una lista unitaria di alternativa, capace di tenere insieme tutte le sinistre e di cominciare a colmare la distanza che ha diviso in questi anni la sinistra politica dalla sinistra sociale. Il fallimento del tentativo del Brancaccio, che ha portato del resto al fallimento di tutte le liste che in un modo o nell’altro a quell’esperienza hanno detto di richiamarsi».

Conviene, forse, a lettura compiuta, nell’intento di dar conto di un insegnamento cui mette capo la riflessione di Ranieri, ristare sulla pagina conclusiva del suo scritto. È intitolata Al capolinea e da qui pare a me utile svolgere qualche considerazione. Intanto, se nella pagina che «chiude» si raccoglie il senso che l’autore intende affidare al suo scritto, Ranieri con le parole dell’ultima sua pagina «apre». Quelle sue proposizioni conclusive, infatti, schiudono i ragionamenti che ha fin qui condotti, e svelano il punto di vista nel quale si è collocato nello stilare la sua «cronaca di una sconfitta».

Quel sobrio e rigoroso esame induce a forme di consapevolezza nuove alle quali il lettore è chiamato ad aprirsi. Un’esigenza di apertura che Ranieri illustra ricorrendo ad alcune figure quali «capolinea», appunto, e «concavo» e «convesso», e «cerchio» e «cuneo». Leggiamo: «Mi sento anch’io al capolinea, come è al capolinea tutta la sinistra italiana. Essere al capolinea si dice di un progetto che è alla fine, quando non c’è più niente fa fare. Della vita stessa quando sta per finire». A questo senso convenuto Ranieri si oppone, notando che «il capolinea è il punto limite dell’uomo convesso, che pensa di avere un mondo da conquistare. Ma potrebbe essere l’inizio dell’uomo che decide di farsi concavo, di mettersi pazientemente in attesa di quello che il mondo può dirci, e che non è mai tutto rinchiudibile in un progetto».

Da questa angolatura l’immagine del «capolinea» si rovescia e Ranieri ne mostra virtualità più consone: «dopo anni di parole il capolinea è voglia di silenzio, di mettersi in ascolto e in attesa. I capolinea, se si parte dal centro, sono le periferie, le banlieue. Dove la convivenza è difficile, e difficile per chi viene dal centro è pensare come ci si possa vivere ed abitare. E si pensa di andarci come il cuneo rosso di Lissitzkj che si infila nel cerchio dei bianchi. Andarci per andare al capolinea è provare ad essere una volta tanto il cerchio e non il cuneo. E il cerchio e l’orizzonte potrebbero essere il simbolo di una nuova politica, dopo tanto dominio del cuneo e del verticale». Silenzio, ascolto, attesa. Cerchio e orizzonte.

Vengono privilegiate in immagine nuove modalità quali l’educarsi all’ascolto e all’attesa, attitudini e pratiche entrambe raramente elaborate ed esercitate dalle culture politiche della sinistra convenzionale. Questa esigenza di osservare e determinare le dinamiche sociali e politiche sospendendo (vietandosi, diresti) il ricorso alla strumentazione fin qui perseguita e dominante, è affermata da Ranieri a partire da un rilievo che va registrato preliminarmente. Esso si impone come «la condizione per essere onesto con gli altri» ed assume dunque valore morale: «Oggi dopo la sconfitta, penso che per rifare seriamente politica devo provare a recuperare quello che ho perso. Uscire dalla politica come fatto totalizzante, dargli un limite dentro di me per capire il limite che ha nella vita e per la vita di tutti, tranne che per i politici di professione».

Così lo stato attuale della sinistra richiede che si diffidi di rimedi immediatamente «politici», escogitati in continuità con la fitta serie di correttivi fittizi e illusori, concepiti da gruppi dirigenti mediocri, volta a volta, da trent’anni, reiterati fino al conseguimento della dissoluzione attuale.