Chi mi conosce sa che non sono sospetto di simpatie per il corso politico renziano. Semmai il contrario. Da gran tempo sostengo che Renzi porta la responsabilità del deragliamento dal progetto originario dell’Ulivo (lo hanno certificato di recente le due voci più titolate al riguardo: Prodi e Veltroni) e che il partito personale di Renzi è cosa fatta.

Un giudizio sottoscritto da molti e autorevoli opinionisti e, di recente, persino da Arturo Parisi che pure, a lungo, aveva dato generoso credito al segretario del Pd, imputandogli un solipsismo (un Io radicalmente incapace di assurgere a un Noi), presagio di sicura sconfitta).

Ciò detto, a mio avviso, chi liquida il Pd come partito di destra semplifica a dismisura e, conseguentemente, opera una lettura che non aiuta a disegnare la prospettiva di un centrosinistra competitivo e virtualmente vincente.

In concreto, contribuendo, ancorché preterintenzionalmente, alla vittoria della destra o dei 5 stelle.

Perché il Pd non può essere qualificato simpliciter come partito di destra? Per più ragioni.

Esemplifico: le sue politiche non sono univocamente definibili di destra, di centro o di sinistra, rispondendo a un movimentismo corsaro teso a occupare un largo e imprecisato spazio politico; il partito, pur scontando un leaderismo che oggettivamente mortifica il pluralismo interno, conosce tuttavia una qualche dialettica di posizioni; nonostante un vertice omologato e un certo cambiamento della base di consenso prodotta dal corso renziano (l’offerta ha in parte forgiato la domanda), gli elettori del Pd, in maggioranza, ancora prediligono una scelta di campo e una politica delle alleanze che si volge alla sua sinistra, per altro praticate nelle amministrazioni locali ; infine, nelle condizioni date, chi si propone di organizzare un centrosinistra vincente non può realisticamente prescindere dal Pd, pur in un rapporto competitivo e dialettico con esso.

Difficilmente, ci si discosterà da un impianto proporzionale della legge elettorale con soglie di accesso decisamente alte al Senato (al momento, l’8%).

In questo quadro e a fronte della ermetica chiusura del partito di Renzi alle alleanze reiteratamente proposte da Prodi a Pisapia, quale può essere l’assetto delle forze in campo ascrivibili al centrosinistra (in concreto, quali liste)?

Al netto delle velleità e della ipocrisia di chi si (e ci) racconta di un Pd che punterebbe al 40%, è d’obbligo – e interesse comune – arricchire e differenziare l’offerta politica da parte dei soggetti distinti che abitano quel campo. Che sconta una emorragia di massa verso l’astensionismo e defezioni significative di elettori più arrabbiati che si sono rivolti ai 5 stelle.

No, dunque, a un listone Pd che immaginasse di includere Pisapia. Una pretesa di annetterselo persino offensiva, politicamente non plausibile e a saldo elettorale negativo.

Ma neppure mi convince la soluzione opposta di un listone neofrontista comprensivo di tutti i soggetti a sinistra del Pd, che sconterebbe palesemente divergenze politiche e programmatiche incomponibili (si pensi solo al rapporto con l’euro e con la Ue). La implacabile logica proporzionalistica enfatizzerebbe le differenze e, perché tacerlo?, l’istinto a una deriva identitaria e testimoniale di una parte minoritaria della sinistra (la storia e la cultura contano!), refrattaria alle mediazioni proprie di chi si acconcia a responsabilità di governo.

Del resto, lo rammento, quando gettammo le basi teoriche dell’Ulivo (vigente una legge elettorale maggioritaria che spingeva ad aggregazioni larghe), intuimmo che esso avrebbe dovuto rompere con due storici tabù, due riflessi condizionati: il dogma dell’unità politica dei cattolici (finalmente separando i conservatori dai riformatori) e il dogma dell’unità delle sinistre.

Posso sbagliarmi, ma penso che, pur dentro un nuovo contesto, quel discrimine si riproponga.

* L’autore è deputato del Pd